AL DI LÀ DEL MURO

Martina RIDOTTO e maestro I IMG_9299

Un artista nel lager

Progetto teatrale di e con Martina Carpi

musiche di Fiorenzo Carpi eseguite al piano dal maestro Marco Mojana

Roma, teatro OFF/OFF

4 febbraio 2020

Maricla Boggio

Alla fine della rappresentazione, dopo tanto raccontare, Martina Carpi si presenta al pubblico con i suoi fogli in mano accanto al maestro Marco Mojana che l’ha affiancata al pianoforte. C’è un silenzio intenso fra il palcoscenico e gli spettatori. Un silenzio sostenuto da pensieri molteplici. Riguardano le atrocità vissute da Aldo Carpi, nonno di Martina, nel “kommando” di Gusen, descritti in un diario tenuto segreto durante la sua prigionia, fitto di lettere ideali alla moglie Maria in cui racconta quanto sta vivendo in quei mesi durissimi. Riguardano i sentimenti di un uomo denunciato da un “collega” dell’Accademia di Brera, dove insegnava, per il suo antifascismo – aveva aiutato una ragazzina emarginata perché ebrea – e viene strappato alla famiglia, sfollata in un paesino lombardo – sei figli amatissimi e la madre – nel gennaio del 1944. Contro l’accanimento dei nazisti a piegarne l’umanità attraverso l’umiliazione della persona con lavori sfibranti quanto inutili – immensi sassi portati in una cava di pietra -, il cibo insufficiente e la cancellazione di ogni identità, Aldo Carpi riesce a mantenere con tenacia la sua dignità di uomo senza arrendersi alla bestialità della situazione in cui è costretto a sopravvivere; vede “al di là del muro”, ed è convinto che ci sarà un momento in cui quel muro sarà abbattuto.

L’intero racconto viene sviluppato da Martina Carpi con l’intensità di chi è consapevole di rendere gli spettatori partecipi di una storia che riguarda tutti, usando il tono razionale di chi ha il dovere di informare, ma anche, quando occorre, di suscitare un sentimento partecipe, una condivisione che soltanto la capacità di un’attrice di alto profilo può esprimere senza cedimenti.

Nel raccontare acuto ed essenziale del diario di Aldo Carpi c’è il lato personale, che rimanda agli affetti familiari, al suo agire nel campo riconoscendosi una piccola fortuna nel saper dipingere, fruitore di una possibilità in più di sopravvivere attraverso i ritratti – i nazisti ne sono ghiotti nel loro sentimentale rapporto con le fidanzate -, tutto questo confidando alla moglie lontana, con il pensiero a raccontarle quel mondo di assurde crudeltà in cui  talvolta si affaccia un timido accenno di gioia. Magistrale è la descrizione del mazzetto di ranuncoli gialli sul tavolino della stanza di anatomia. Lo sguardo di Aldo Carpi vi scopre l’universo nella sua perfezione gioiosa, traendone forza per proseguire a resistere in un mondo da cui –  è convinto – si dovrà uscire.

Dall’ambito del privato, che si fa storia di ogni essere umano, Aldo Carpi passa alla considerazione della Storia nella sua grandiosità di evento tragico. Emergono a tratti in descrizioni tenere e veloci i volti smagriti degli adolescenti condannati a perire, mentre è la massa senza lineamenti, carica di una sofferenza atroce, a imporsi nella descrizione dei corpi divenuti materia informe destinata ai forni, sono allora disegni appena accennati, in cui si indovina per la sensibilità del pittore tutta la disumanità che vi ha voluto  mostrare. Disumanità che si perpetua nell’ignoranza di ogni sentimento anche quando per primi arrivano i Russi al “kommando”: arrostiranno le loro patate sui carboni ardenti degli ultimi corpi bruciati.

Tutto questo e ancora molto altro Martina Carpi racconta, senza scelte interpretative di voci o personaggi, nella capacità di esprimere da parte di quelle righe di diario – l’unico forse ad essere uscito da un campo di sterminio: Aldo lo teneva nascosto nell’ampio grembiule, se glielo avessero trovato, l’avrebbero ucciso -, con la forza dirompente di una verità storica che dall’individuo consapevole della propria umanità si fa interprete di una vicenda universale.

Va detto che, a liberazione avvenuta, Aldo Carpi sarà acclamato direttore di Brera per le sue capacità artistiche e il suo valore di persona. Ne fa fede il manifesto conservato da Martina, in cui l’acclamazione scritta dai giovani studenti entusiasti emerge nelle rozze scritte e si fa viva testimonianza di un riconoscimento che va all’uomo e all’artista, uno dei pittori e maestri più significativi del Novecento.

Emerge a tratti, nel racconto di Aldo, memore di un passato felice che spera di riallacciare, qualche figura familiare: il penultimo dei sei figli, Paolino, morto a diciotto anni in un lager, e soprattutto, con la forza dirompente dell’artista che sarà, Fiorenzo, il compositore padre di Martina. Di lui sono le musiche suonate al pianoforte dal maestro Marco Mojana, con una delicatezza che lo immedesima nella rappresentazione, da Martina definita “Progetto teatrale”, forse perché è qualcosa che travalica l’immediato e si fa svolgimento ulteriore. Di questa esecuzione partecipata del maestro Mojano  ricordiamo, in echi a volte volutamente dissonanti nell’evocare nostalgie, sofferenze e gioie, spettacoli di Strehler, immensi Brecht e leggerissime canzoni milanesi, a cui tanto contribuì Fiorenzo Carpi con il suo estro di compositore.

Lo spettacolo si conclude nel racconto  del violino, capitato non si sa come nel lager, di quel legno che rende il suono prezioso; lo afferra qualcuno che davanti  al magico strumento recupera una dimenticata sensibilità artistica, e ne trae quei suoni misteriosamente evocativi d’ anima, quell’anima che non può invecchiare  – dice Aldo – se tende al bene, e non è malata.

La descrizione incantata di quel momento sospeso conclude il racconto che Martina ha fatto suo, e che ha trasmesso con la forza della parola a tutti noi.