ANTONIO E CLEOPATRA

di William Shakespeare
traduzione di Gianni Garrera
e l’adattamento e la regia di Luca De Fusco

con
Luca Lazzareschi e Gaia Aprea
e
Stefano Ferraro, Serena Marziale, Paolo Cresta, Giacinto Palarini, Alfonso Postigione, Federica Sandrini, Gabriele saurio, Paolo Serra, Enzo Turrin
in video
Eros Pagni
Il corpo di ballo del Teatro San Carlo di Napoli
scene di Maurizio Balò,
costumi di Zaira de Vincentiis,
disegno luci di Gigi Saccomandi,
musiche originali di Ran Bagno
suono di Hubert Westkemper
coreografie di Alessandra Panzavolta
Teatro Stabile di Napoli, Fondazione Campania del Festival-Napoli Teatro Festival Italia,
Arena del Sole/Nuova Scena-Teatro Stabile di Bologna
Roma, 28 gennaio 2014, Teatro Eliseo
Maricla Boggio


In una scelta che va perseguendo da alcuni spettacoli, Luca De Fusco ha affrontato questo testo di Shakespeare, immenso nella molteplicità dei temi che lo percorrono attraversando la storia e immettendovi emblematicamente le spinte dell’agire umano, dove ricorrono nel flusso dei sentimenti – dell’amore e della competizione al potere soprattutto – quei meccanismi della rivalità mimetica che René Girard ha individuato come motori primari di ogni comportamento.
Ed è il legame fra la regina d’Egitto Cleopatra e il condottiero romano Antonio a dare origine allo sviluppo intrecciato di amore e potere che porterà alla tragedia finale, di Antonio, illuso di valersi delle forze egiziane, sconfitto da Cesare Ottaviano nel nome di Roma, e di Cleopatra chein un gioco fra l’infantile e il perverso, dopo un falso annuncio del suo suicidio, davvero si uccide con il veleno della vipera quando Antonio suicida spirerà dopo una lunga agonia.
Passione reale o scaturita da vicendevoli ambizioni, i due riproducono una coppia che appartiene ad altri testi shakespeariani, sono Macbeth e la sua Lady, ma sono anche – e non sembri strano, anche qui ci sono elementi di rivalità mimetica – Romeo e Giulietta, Caterina la bisbetica e Petruccio, e altri ancora che nel contrasto trovano motivi d’amore e di volontà di potere in competizione con altri soggetti.
In questa coppia la rivalità mimetica si inserisce prepotentemente e in più modi.
Antonio è rivale di Ottaviano, erede di Cesare e in ascesa formidabile a Roma. Ma è anche in rivalità con il defunto Cesare, amante un tempo di Cleopatra. Cleopatra è in rivalità con Faustina, moglie amatissima di Antonio, rimasta a languire a Roma; quando Faustina morirà, Antonio, brevemente tornato a Roma non tanto per il lutto quanto per concordare una linea di azione con Ottaviano, ne sposa la sorella Ottavia, creando un nuovo motivo di rivalità a distanza fra la regina egiziana e la sorella di Cesare Ottaviano.
Qui in ognuno dei personaggi la rivalità si moltiplica intrecciando amore e potere, perché anche le donne ne sono detentrici: in maniera palese per Cleopatra, per interposta persona per Ottavia. E’ antico come il mondo il desiderio di possedere quello che ha l’altro, e che magari non interesserebbe se non appartenesse a quell’altro.
Sul filo della storia Shakespeare gioca con questi impulsi insopprimibili e vi inserisce la forza dirompente dei sentimenti. Anche fra Cleopatra e Antonio si realizza lo scontro per il predominio verso l’ambito dell’altro: lei prevaricando i fedeli di Antonio, lui imponendo il proprio sistema di battaglia, fino alla tragedia finale, della sconfitta, del suicidio della regina e del compimento della morte di Antonio. La notizia di questa morte raggiunge Ottaviano e, anziché procurargli la gioia della vittoria, lo fa scoppiare in pianto: più che la perdita di quello che era stato un amico, è la perdita di Antonio divenuto un nemico a portarlo a una sorta di vuoto, di mancanza di ragione ad agire. Anche questo è un assunto delle riflessioni di René Girard.
Scartando il racconto della storico-fantastica vicenda, va detto dello spettacolo, grandioso nell’invenzione drammaturgica, che da una vicenda iniziata come un dialogo leggero fra amanti si dilata alle strategie guerriere, agli intrighi di corte, alla valutazione delle forze belliche e alla diplomazia con cui condurre una complessa storia di scontri fra due civiltà.
De Fusco ha scelto una strada precisa, razionale e suggestiva insieme, attraverso cui la parola del poeta si imprime con nitidezza negli spettatori, accompagnata da immagini di forte pregnanza. Divenuti statue parlanti, avulse da una umanità caduca, i personaggi paiono venir evocati da antiche aree archeologiche. Su di una ripida scalinata nera – scena funzionale nella sua essenzialità di Maurizio Balò – gli attori pronunciano le loro battute con dilatata sonorità, scontornati sotto velari di cieli o di acque; ma giganteggiano poi in dettagli proiettati in avanti, volti intensi o mani protese, o intrecci passionali. La fissità delle figure scompare nell’intensa incisività delle battute. In un sopore fantasmatico i protagonisti sviluppano la loro ineluttabile storia come in un inferno dantesco, mentre vengono valorizzate anche le entità più marginali, servi e devoti, ancelle consolatrici e messaggeri, fino alla voce incombente di Eros Pagni, che consiglia e vaticina ciò che il fato ha deciso, al di là del merito e della volontà. I suoni – del celebrato Westkemper -, le proiezioni, che hanno un sapore inedito rispetto a precedenti esperienze spettacolari, opera di Gigi Saccomandi; i costumi di Zaira de Vincentiis disumanizzanti i personaggi, pietrificandoli e consegnandoli al mito, tutti gli elementi contribuiscono a uno spettacolo da apprezzare.
Superba Cleopatra è Gaia Aprea, senza esteriorità divistiche, vicina a uno stile inglese, di attrici capaci di passare dal comico al grottesco alla tragedia con altrettanta capacità: la sua Cleopatra è inedita nelle sfaccettature dell’interpretazione, dal gioco amoroso perverso e infantile, alla sapienza strategica della regalità fino alla rassegnazione altera al destino. Luca Lazzareschi è altrettanto efficace nel suo contrastato personaggio che oscilla fra la lucidità dello stratega e la debolezza dell’innamorato. Di assoluta professionalità tutti gli interpreti, inseriti in un intarsio perfetto di battute e gestualità misuratissime, dove – come in un’orchestra – non ci può essere errore da parte di nessuno. Problematico ripetere questa scelta estetica in un’altra regia, perché la splendida idea delle “statue parlanti” è forse irripetibile.
Tensione e adesione allo spettacolo da parte di una platea attenta e partecipe, il che, con un testo così complesso e articolato, di rado accade.