CABARET

cabaret2015roma

testo di Joe Masteroff
basato sulla commedia di John Van Druten
e sui racconti di Christopher Isherwood
musiche di John Kander
liriche di Fred Ebb
scenografie di Gabriele Moreschi e Saverio Marconi
costumi di Carla Accoramboni
regia di Saverio Marconi
Teatro Brancaccio, Roma
7 ottobre 2015

Maricla Boggio

E’ la terza volta che Saverio Marconi mette in scena “Cabaret”.
Non abbiamo visto le precedenti edizioni, ma da quanto lui ne scrive, questa nuova versione risulta approfondita e meditata rispetto alle altre due. Con una volontà di indagare su quello che viene raccontato nel musical, sotto le apparenze divertenti. E si interroga su quello che, pensando per analogia a una nostra realtà, potrà accadere in un prossimo futuro, ripensando a quanto accaduto allora, in quella Berlino inizi anni Trenta, alle soglie di un nazismo ancora lontano dalla tragicità di pochi anni dopo, ma già presago di quanto sarebbe avvenuto.

Per arrivare al testo, firmato da Joe Masteroff, c’è voluta la commedia di John Van Druten e i racconti di Christopher Isherwood, prescindendo dalla versione piuttosto edulcorata del film di Vicent Minnelli del 1962, che ebbe protagonista Liza Minnelli.
Non conosco direttamente tali fonti, ma sono convinta che Marconi abbia dato maggior risalto al lato politico della vicenda che si snoda in apparenza sotto il segno del Cabaret e del divertimento. “Maestro di cerimonie” di questo locale – Kit Kat Club – è uno sfrenato illustratore di numeri di varietà – Giampiero Ingrassia – danzati e cantati da cinque procaci fanciulle esperte in ogni accattivante “numero”.
La cifra spettacolare funge da cornice alla vicenda “privata” del giovane romanziere americano Cliff Bradshaw e della dolce e svampita Sally Bowles tenacemente alla ricerca di una carriera di diva del cabaret a cui si sacrifica accettando amanti ricchi e umiliazioni di vario genere. Mauro Simone e Giulia Ottonello impersonano la coppia che dopo un amore breve si separeranno, lui tornando in America, lei restando a Berlino nell’illusione di conquistare la celebrità senza rendersi conto dell’incombere del nazismo che comincia a esercitare la sua violenza. Tutto si svolge in una alternanza epica, di scene intime, dialogate, e di esibizioni canore e di balletto. I ragazzi del corpo di ballo sono davvero scatenati, forse anche con qualche cosa in più nella ricerca di un realismo che rischia di essere eccessivo, mentre poteva essere portato verso una più metaforica espressività.

Marconi ha impresso alla vicenda un sapore brechtiano, non tanto per le musiche, che arieggiano Kurt Weill, quanto per il susseguirsi delle scene in cui via via si svela una violenza insospettata, fatta di meschini soprusi: la minaccia alla anziana affittacamere – Altea Russo – che sta per sposare il maturo ebreo venditore di frutta – Michele Renzullo – , o di violenze fisiche – il romanziere che, resosi conto del disegno nazista a cui inconsapevolmente aveva collaborato, si ribella al falso amico sostenitore dell’incombente nazismo e viene picchiato brutalmente -, mentre l’allegria spensierata e rivolta al sesso delle ballerine e del loro “maestro di cerimonie” si va tramutando, in un simbolico cambio di costumi, in un triste gruppo di deportati avviati ai lager, con cui il regista conclude coraggiosamente lo spettacolo. Assai suggestiva la scena in cui Sally canta con enfasi trascinante, mentre nel finale cade il drappo rosso che costituiva la scena, scoprendo la svastica nazista.
Gli interpreti sono indiscutibilmente bravi, a cominciare da Ingrassia che attribuisce una durezza faunesca al suo personaggio, mentre su toni più morbidi si sviluppa l’interpretazione di Mauro Simone, lo scrittore e di Giulia Ottonello, Sally, che ha poi un forte risvolto nel canto, trascinante e impetuoso.
Qualcosa di questa vicenda mi ricorda un “Terrore e miseria del Terzo Reich” firmato da Strehler, in cui scene del genere si avvicendavano, seguendo la scrittura di Brecht, in un progressivo clima di orrore. Al di là del “cabaret” la cifra voluta da Marconi penso sia questa, in un interrogarsi inquietante verso il futuro.