CANDIDE

Candide di Mark Ravenhill - regia Fabrizio Arcuri - foto Achille Le Pera .01 -  (3)di Mark Ravenhill

ispirato a Voltaire

regia Fabrizio Arcuri

traduzione Pieraldo Girotto

con Filippo Nigro, Lucia Mascino, Francesca Mazza, Francesco Villano,

e matteo Angius, Federica Zacchia, Francesca Zerilli,

Domenico Florio, Lorenzo Frediani, Giuseppe Scoditti,

e la partecipazione Straordinaria di Luciano Virgilio

musiche composte, arrangiate ed eseguite da H. e. r.

scene Adrea Simonetti

costumi Fabrizio Arcuri

Produzione Teatro di Roma

in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina

 

Maricla Boggio

Complessa, troppo complessa storia questa che Mark Ravenhill ha scritto ispirandosi al “Candide” di Voltaire. Star del teatro inglese al punto da essere drammaturgo residente della Royal Shakespeare Company, Ravenhill prende spunto dal famoso romanzo-saggio dello scrittore francese per contestare, come già fece Voltaire, la convinzione che il mondo in cui viviamo sia il migliore dei mondi possibili, ideologia buonista che assolve ogni sciagura come necessaria per raggiungere comunque il bene dell’umanità.

I piani drammaturgici che Ravenhill percorre alternando l’epoca del protagonista voltairiano con quelli di un presente a cui fa seguito un futuro vago e simbolico sono stilisticamente differenti, come appartenenti a diversi spettacoli. Il regista Arcuri ha rispettato tale struttura cercando nella dimensione del teatro nel teatro e del gioco dell’interpretazione “fuori/dentro” una cifra che gli consentisse di realizzare l’intero testo.

Di difficile descrizione l’intero percorso, che vede agli inizi Candide in un castello, pressoché requisito da una Contessa che vorrebbe tenerlo con sé svagandolo con la rappresentazione della sua stessa vita, in cui la giovane Cunegonde e il maestro Pangloss, vero ideatore della teoria del “migliore dei mondi possibili”, si ritrovano in compagnia del Candide teatrale a cui si sostituisce il Candide reale, nello stupore della scoperta dell’altro da sé.

Ma ciò che preme a Ravenhill – e crediamo anche ad Arcuri – non è tanto il gioco dell’alternanza con il passato voltairiano, che si ripresenta poi nella visita di Candide all’Eldorado, mondo incontaminato ma anch’esso invivibile, quanto un ipotetico presente/futuro che si manifesta avendo protagonista una giovane che esasperata dai comportamenti dei familiari e dei loro buonismi spara a ciascuno di loro finendo anche lei uccisa: siamo qui nella dimostrazione della tragedia assoluta che più volte si ripropone nella nostra società, ferita da tante morti senza motivo se non quello di una perdita di senso del mondo attuale. Parte da questa situazione l’idea della sceneggiatura di un film, le varie ipotesi di un dramma di cui si indaga la reale possibilità di emozione, la verità della sofferenza, la rappresentazione del dolore. Qualcosa insomma di “vero”, a quanto abbiamo capito. Ed è la parte migliore di questo scritto molto, troppo carico di motivazioni, di proteste, di affermazioni che difficilmente diventano fatti teatralmente validi, come accade sempre quando le tematiche prevalgono sul “come” e diventano motivo insindacabile di valutazione positiva. E’ l’ultima parte ad essere parecchio effettata, con il senso di una tragedia incombente, che parte di lontano, da un Candide ibernato che si risveglia dopo quattrocento anni e trova la sua Cunegonde orribilmente trasformata in una sorta di mummia tragica che implora da lui ancora un bacio, un bacio per tutte le tragedie che si sono susseguite in quei tanti anni dall’ottimismo disatteso degli inizi.

Metafora di un oggi di guerre e tragedie, difficilmente gestibile il dramma di Ravenhill non può che essere accettato come l’opera di un autore sensibile alla crisi esistenziale attuale e quindi preso nel suo complesso, che gli attori guidati da Fabrizio Arcuri hanno offerto a un pubblico attento a decifrare con rispetto l’impegno di tutta la compagnia.