CHI HA PAURA MUORE OGNI GIORNO – I miei anni con Falcone e Borsellino


pubblicato da Mondadori
scritto da Giuseppe Ayala con la collaborazione di Ennio Speranza
con Francesca Ceci
Musiche di Roberto Colavalle e Matteo Cremolini
luci Pietro Sperduti
proiezioni Alessia Sambrini
collaborazione al progetto Massimo Natale
regia Gabriele Guidi
produzione Mind & Art Srl

Roma, Teatro Quirino, 17 e 18 marzo 2012

« La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.»
(Giovanni Falcone)

Le parole pronunciate da Giovanni Falcone sono echeggiate, nel ricordo e nella testimonianza di Giuseppe Ayala quasi a sintesi di quanto affermato nel corso di un incontro da lui tenuto in una sala teatrale, e più volte ripetuto in varie città, sempre in luoghi teatrali.
E’ importante questa presenza di Ayala in teatro, cioè in un ambito a lui non familiare, perché consente al teatro di riappropriarsi di ambiti che nella sua intrinseca forma espressiva in realtà gli appartengono, ma che sono stati a lungo disattesi dalla maggioranza di chi fa teatro, abbassando spesso questo mezzo di comunicazione, unico nella sua bellezza e capacità di sintesi e di emozione, a strumento di divertimento corrivo o al più a generica descrizione di situazioni attuali o storiche o nel migliore dei casi a denunce di casi che invalidano la nostra società ma che sono frutto di invenzione.
Ayala è un testimone che ha vissuto una stagione speciale del nostro Paese, vi si è impegnato di persona rischiando quella vita che i suoi compagni di strada più vicini hanno perduto tragicamente: quasi un caso la sua sopravvivenza, ed egli ironizza su questa sorta di fortuna che consente a lui, certo, di vivere, ma a noi di venire a conoscenza di quei fatti, e della consistenza e attività della mafia ma non solo, un racconto in prima persona che ci fa partecipi attenti e perfino increduli, di quanto si annida nelle pieghe dello Stato italiano e di quanto è avvenuto nonostante la seria e profonda volontà di cambiamento operata dai giudici che vi hanno perso la vita.

Il palcoscenico scarno è appena reso teatrale da un robusto alberetto di magnolia carico di fiori bianchi, qualche sedia di legno ne scandisce gli spazi in tre punti, sul fondo uno schermo bianco si animerà nei momenti necessari di proiezioni – tutte in bianco e nero, datati di decenni – che riporteranno dichiarazioni e interviste essenziali al discorso di Ayala. Sfileranno in quel quadrato luminoso i volti severi, carichi di una preoccupazione contenuta ma evidente, di Rocco Chinnici, di Antonino Caponnetto, di Falcone e di Borsellino, tutti a dichiarare con parole scarne e incisive come macigni la situazione grave di una società alle prese con un fenomeno radicato e difficile da cancellare.
Così inquadrata in una discorso che di teatrale ha alcune forti connotazioni, pur di civile e rigoroso documento, parrebbe che alla conclusione di una fase ci si possa catarticamente rallegrare della sua fine e per questo raccontarne. Ma Ayala ci avverte, ed è questo il messaggio che al di là di un compiacimento legittimo per i risultati ottenuti attraverso la condanna di centinaia di mafiosi bisogna tenere presente: ” Il nostro lavoro non si arrestò per la reazione di Cosa Nostra; noi fummo fermati da pezzi delle istituzioni dello Stato! E’ venuto il momento di chiarirlo”.
A questa conclusione Ayala arriva dopo aver tenuto con forza nelle sue mani, da pubblico ministero, quel processo che si svolse nell’aula bunker appositamente realizzata accanto all’Ucciardone – il carcere di Palermo dove erano detenuti i mafiosi in attesa di giudizio, perché non esisteva nessun luogo in cui potessero essere contenuti tutti quanti: fu quello l’atto conclusivo che si potè compiere dopo il massacrante lavoro dei giudici Falcone e Borsellino, che misero insieme un milione di pagine di prove accusatorie. Il lavoro dei due giudici, accomunati da una stima ed amicizia esemplari viene raccontato da Ayala, che fu terzo nel gruppo legato da profonda amicizia e considerazione, attraverso un sapiente quanto schietto e veritiero avvicendamento di momenti colloquiali e di momenti rigorosamente giuridici. Era il modo stesso di lavorare di quel gruppo che per l’astuzia del giudice Antonino Caponnetto, venuto da Firenze, si era potuto formare a dispetto di ordini contrastanti da parte di superiori: era quel “pool” per merito del quale si arrivò a risultati mai ottenuti e nemmeno sperati prima. A mostrare la loro umanità, le pieghe private di una vita dedita al lavoro come ad una missione ma anche consapevole della necessità di apprezzare i doni dell’amicizia, gli affetti familiari, lo svago nei pochi attimi liberi dall’impegno assillante dell’indagine, degli interrogatori, della stesura degli atti. Ed è ancora più emozionante e commuove il pensiero del sacrificio di uomini così rari e così preziosi per la società, purtroppo inconsapevole di tanta eroica fatica.

Il dolore di Ayala non è soltanto nella consapevolezza della perdita degli amici, soprattutto Falcone e Borsellino dopo tanti altri, fra cui i giudici Chinnicie La Torre e il generale Dalla Chiesa, quanto la constatazione, annunciata ai due suoi più cari, che la sentenza in Cassazione, che concludeva i processi con condanne definitive, poneva in pericolo le loro vite: i mafiosi non più con la speranza di avere “processi aggiustati” si sarebbero vendicati. Il segnale di questa previsione si verificò quando venne uciso Lima, esponente politico democristiano: la stranezza del fatto si spiegò in quanto quel politico non era riuscito, come certo prima, intervenire sulle sentenze, ed era stato quindi eliminato. Politica e mafia avevano lavorato di concerto in molte occasioni, lo Stato era intriso di mafia e la mafia era nei gangli dello Stato. Questa l’amara constatazione, che impedisce tuttora a dei veri servitori dello Stato di eliminare del tutto la mafia, perché la mafia è anche nella politica.
Con voce ferma Ayala ci informa di queste atrocità che ci attorniano senza che noi ce ne rendiamo conto. Si alterna alla sua voce quella di una giovane attrice che con fermezza e intensità aggiunge informazioni a quello che è il racconto vissuto del giudice. C’è un rigoe ed una essenzialità estreme in tutto il lungo svolgersi della rappresentazione, ché tale lachiamerei piuttosto che spettacolo, per quel tanto di maggior austerità e direi quasi religiosità che ne emana.
Grazie, Ayala, leggeremo il tuo libro, sarà un ulteriore momento di consapevolezza, una riflessione che ci riporterà al tuo racconto più attenti e forse più tristi.