testo e regia Ruggero Cappuccio
con Ruggero Cappuccio e Giovanni Esposito
e con
Giulio Cancelli, Ciro Damiano, Gea Martire, Marina Sorrenti
scene Nicola Rubertelli
costumi Carlo Poggioli
disegno luci e aiuto regia Nadia Baldi
musiche Marco Betta
produzione Teatro Segreto – Teatro Stabile di Napoli-Teatro Nazionale
Roma, Teatro Eliseo, 3 aprile 2018
Maricla Boggio
L’ispirazione dello spettacolo firmato da Ruggero Cappuccio nella triplice veste di autore, regista e attore, parte dal don Chisciotte del Cervantes: in scena figura il professor Cervante, una sorta di pronipote del famoso personaggio, insieme a Salvo Panza, un altrettanto pronipote ispirato a Sancho Panza; il mezzo millennio che divide i veri protagonisti da quelli oggi viventi lascia in essi una sorta di vaga volontà di rievocarne le imprese, i diverbi, le liti e le connivenze.
Questo trascinante sviluppo di fatti, di riferimenti, di evocazioni verbali e contraddizioni culturali si svolge in una sfera che tutto contiene nella magica cifra del circo, in cui tutto è lecito, e tutto assume le vaghe forme del gioco. Rappresentante della cultura e dell’eroismo, il professor Cervante a cui dà rilievo lo stesso Cappuccio con vorticoso piglio esaltato, è in continua contraddizione con il povero vagabondo in cui ravvisa un suo scudiero – Giovanni Esposito immette nel suo Salvo Panza una ragionevolezza partenopea fatta di sapiente ignoranza e di eterno buonumore a dispetto della miseria e della fame.
Innumerevoli le trovate di cui è disseminato questo percorso fatto soprattutto di parole; il riferimento va soprattutto alla cultura, ai libri, talvolta da mettere sotto i piedi per riuscire a superare le difficoltà di un lago infido, talvolta da esaltare ad ogni lettura estraendone sempre nuovi significati.
Il lungo dialogo dei due così dissimili e al tempo stesso facce ribaltate della personalità umana è arricchito dalla presenza di altri personaggi, che del circo hanno tutta la giocosa volontà di sopravvivere attraverso la fantasia.
La coppia Ciro Damiano – Gea Martire spunta da un vagone che appare in scena come per magia, e con i loro lazzi e le loro illusioni di antichi osti portatori di buon umore caduti in miseria coinvolgono i due che non desiderano altro che trovare in altri il loro stesso desiderio di vitalità, di avventura e di gioia.
Ai due clowns si aggiunge un terzo: Giulio Cancelli, anche lui scaturito da ricordi legati ad antiche bravate – lo chiamavano Duca, non perché fosse nobile, ma perché correva all’impazzata su di una vecchia Ducati -, che si cimenta in giochi illusionistici.
Da ultimo, ancora su di un vagone affacciatosi silenziosamente in scena, una principessa siciliana dalla chioma fluente – Marina Sorrenti che invade la scena di una sua presenza da fata delle favole – inneggia alla luna e vaneggia di castelli lontani. Laggiù, forse, l’ispirato Cervante individua la sua Dulcinea in pericolo di sposalizio, e ancora per una magica invenzione tutti quanti spiano la scena del matrimonio attraverso dei cannocchiali: ma i cannocchiali sono dei semplici cartoni e anche questa visione è illusione. Forse non sarà illusione la pioggia dei fogli che scendono dal cielo sullo spazio di questo circo ormai esausto. Rivoluzione o potere della parola come poesia, così finisce questa cavalcata dalle innumerevoli sfaccettature, prova di abilità linguistica, dal napoletano “culto”di Cappuccio-Cervante a quello bertoldesco e sapido di Esposito-Panza.