HEDDA GABLER


di Henrik Ibsen
traduzione di Roberto Alonge
scene di Pier Paolo Bisleri
costumi di Carla Teti
musiche di Germano Mazzocchetti
luci di Nino Napoletano
regia di Antonio Calenda
con Manuela Mandracchia,
Jacopo Venturiero, Luciano Roman, Massimo Nicolini,
Federica Rosellini, Simonetta Cartia, Luciana Piazza
Roma, teatro Quirino, 17 dicembre 2013

Maricla Boggio

Quella chaise-longue laterale, avanti sulla scena, dove spesso Hedda Gabler si sdraia, il volto riverso, raccontando i suoi pensieri al confidente che gli sta accanto, indica da parte di Antonio Calenda una dichiarazione implicita all’entrata della psicanalisi nella ricerca introspettiva che la protagonista opera su di sé: inguaribile malattia dell’anima la noia – o taedium vitae – non può guarire, soltanto la si avverte con più oggettività. Ed è questa forse la cifra esistenziale a cui fa capo questa Hedda svagata ed elegante, cortese e cinica, che è scaturita dal binomio Calenda-Mandracchia, regista e interprete.

L’inquietudine e la ricerca interiore delle ragioni del vivere sono sempre esistite, almeno da quando il teatro le ha fatte emergere dall’indistinto agitarsi nell’animo umano. Risalendo i millenni le domande sulla propria esistenza, sulle sue motivazioni, sui rapporti che si intrecciano fra gli esseri umani hanno sempre portato a domande le cui risposte non sono mai state esaurienti. Mutando le società e con esse le culture, gli interrogativi di fondo sono rimasti analoghi, pur nelle sfumate differenze che i tempi vi hanno portato. La società che Ibsen ha descritto nelle sue numerose opere teatrali sono certo differenti dalla nostra attuale se si guarda ai costumi esteriori, e a certe forme di comportamento in cui soprattutto le donne risultano confinate; ma se si entra nell’interiorità dei protagonisti delle storie descritte con profonda partecipazione dall’autore norvegese, si constata che la sostanza di quelle storie ci tocca da vicino.

“Hedda Gabler” è forse una delle opere che più ci avvicina al mondo tormentato, inquieto, carico di insoddisfazioni, di problemi oscuri che a tratti si delineano nell’animo dei protagonisti, incapaci di serenità e di vera solidarietà. Il regista Antonio Calenda cita con ragione quel desiderio mimetico che René Girard, antropologo e filosofo francese, vede come fonte di rivalità distruttiva che invade l’essere umano di fronte ad un altro che detiene qualcosa che anche lui desidera fino ad annientare colui che sente come avversario: rivalità per qualcosa che magari neppure avrebbe desiderato se non fosse stato per aver visto “quella cosa” in mani altrui. Nel testo ibseniano questo desiderio mimetico pervade la vicenda, fondendosi con innumerevoli altri spunti e oscuri oggetti di desiderio e stati d’animo insorgenti dall’indistinto sentire. Hedda è appena tornata da un lungo viaggio di nozze, sei mesi in cui il marito non ha fatto che cercare documenti per una sua ricerca che lo porterà alla cattedra universitaria, dal cui stipendio dipende l’esistenza della coppia. La casa dove sono andati ad abitare, arredata da una vecchia zia adorante del giovane Tesman. è stata un capriccio di Hedda, che tanto per avere in tempo di fidanzamento un motivo di conversazione con il noioso pretendente Tesman, gli aveva detto che avrebbe desiderato abitare in quella casa – ecco un primo desiderio mimetico -, ma in realtà a Hedda non importava nulla. Lasciando la trama del dramma alla conoscenza dei lettori, insisterei sulla personalità della protagonista, che sembra racchiudere in sé molti elementi di moderna insofferenza, di tormentata ricerca di un qualcosa di inafferrabile che pare a momenti essere quasi raggiunto, per sfuggire di nuovo. Questo marito scelto per convenienza e nella speranza di una posizione di prestigio in una società in cui impera la noia, dimostra fin nei dettagli che l’autore con arte evidenzia la sua nullità festosa, la sua gioiosa ottusità: quale gioia nel ritrovare, portate dalla buona zia, le vecchie pantofole ricamate dalla cara vecchina malata, altra zia! E così di seguito, entusiasmo per vecchi cataloghi, cordialità per il giudice Brack, palesemente portato a fare una corte pesante a Hedda, e infine felice di sapere che è tornato in città un caro amico caduto in un’esistenza travagliata e forse peccaminosa, ma adesso ridivenuto savio, che ha addirittura scritto, ispirato da una signora che con il marito lo ha ospitato come educatore dei bambini, un libro eccelso, che parla della cultura nel futuro. Questa benefattrice, la signora Elvsted, è accolta da Hedda con curiosità. L’idea che sia stata l’ispiratrice di quel libro che si preannuncia pericoloso per la carriera di Tesman, le insinua quel desiderio mimetico di cui è intrisa la vicenda; anche qui impera il non detto, certo la donna era più che un’ispiratrice, forse un’amante, anche senza rapporti carnali, ma certo una che ha rubato nel cuore di Lovborg il posto che era stato di lei. Era stata Hedda l’amica segreta, condividendo con lui turbamenti e passioni, del giovane autore, Lovborg. E il suo ritorno la riporta a quei segreti incontri, mentre giulivamente Tesman beve e chiacchiera con il giudice Brack. E’ nella notte in cui gli uomini vanno a una loro festa sfrenata – costume dell’epoca, che le donne ignorino e tollerino ciò che non è detto, di simili incontri – che si compie il percorso interiore di Hedda, mentre lei e la Elvsted attendono il ritorno degli uomini fino all’alba, precipitano gli eventi. Tesman rientra portando con sé il prezioso libro manoscritto che Lovborg ha perduto per strada, preda di nuovo del suo squilibrio. In breve, Hedda, appena uscito il marito chiamato dalla zia sul letto di morte della sorella, brucia il libro. In esso vede il simbolo di una maternità altrui da lei odiata, come quella che lei stessa porta in grembo, non voluta, a unirla a quel Tesman per lei indegno. L’arrivo di Lovborg disperato e mesto porta a un’impennata d’orgoglio di Hedda, incapace di sopportare la caduta di un uomo che forse avrebbe potuto essere davvero un compagno: gli offre una delle due pistole del padre, che per lei hanno continuato a rappresentare una presenza protettrice e forte, quasi un messaggio paterno. E’ un segno preciso, il suo, dato all’antico compagno perduto. E presto si verrà a sapere che Lovborg ha usato quella pistola, si è ucciso; ma non come segno di bellezza, come Hedda avrebbe voluto, a riscattare la miseria dell’esistenza, Lolvborg è morto forse per un colpo di pistola di una squallida donna di piacere, con la quale stava litigando nella convinzione che fosse stata lei a rubargli il manoscritto. Il disgusto per le meschinità di un’esistenza che le si profila noiosa e tetra, si accresce in Hedda quando Tesman, affranto per la distruzione del libro, deciderà di ricostruirlo sulla base degli appunti della Elvsted, lasciando Hedda alla compagnia del giudice, che si profila un inevitabile tradimento. E’ inevitabile allora il gesto ultimo, a riprendersi la dignità, a dispetto del mondo e delle sue convenienze. Hedda si uccide con un colpo della pistola rimasta, dopo aver suonato disperatamente una musica concitata al suo pianoforte. E quale sarà il commento del Giudice Brack, vero rappresentante di questa società corrotta e perbenista? “Ah! ma queste cose non si fanno!”.
Nell’inevitabile necessità di far entrare il lettore nello spirito del dramma, poco spazio rimane a dire dello spettacolo. Ma la complessità dell’opera è stata accortamente affrontata dal regista Antonio Calenda che vi ha estratto ogni elemento utile a offrirne al pubblico motivi plurimi di riflessione e direi addirittura di introspezione. Calenda è riuscito a trasfondere nei suoi attori le modalità espressive necessarie a comunicare questi elementi agli spettatori. Prima di tutti, Manuela Mandracchia, ambigua, ironica, leggera e perversamente sofferente sotto la patina dell’indifferenza, una vera prova d’attrice. Jacopo Venturiero, ancora così giovane, ha delineato il suo Tesman con forte capacità introspettiva, riuscendo ad offrirne la figura sempliciotta e infantile del personaggio quanto mai difficile senza cadere nell’ovvio. Luciano Roman è stato un giudice di ambigua presenza, di malcelata sensualità come doveva. Massimo Nicolini era Lovborg, quanto mai nella parte anche se un po’ giovane per essa, supplendo all’età con vocalità appesantite. Gentile e fragile la Elvsted di Federica Rosellini, nella zia ben caratterizzata Simonetta Cartia e Laura Piazza una premurosa Berte.