DA KRAPP A SENZA PAROLE

di Samuel Beckett

Traduzione di Carlo Fruttero e Franco Lucentini

Con Glauco Mauri e Roberto Sturno

Musiche di Germano Mazzocchetti

Regia di Glauco Mauri

Roma, Teatro Piccolo Eliseo, 4 aprile 2013

 

Maricla Boggio

 

Bisogna conoscere il lavoro svolto in più di cinquant’anni da Glauco Mauri per un teatro sempre di alto livello artistico, e la coerenza con cui, attraverso i decenni, è riuscito a mantenere ed affinare la sua visione di un teatro dalle molteplici finalità, culturali, educative, poetiche, di divertimento e di indicazione sociale, ma anche, lasciando da parte le definizioni, di un teatro che sia comunicazione diretta con la gente ai più diversi livelli. Se si conosce questo lavoro, si può apprezzare in pieno questo spettacolo “Da Krapp a Senza parole” che rappresenta una sorta di riflessione complessiva di un impegno che, insieme a Roberto Sturno, l’attore ha svolto affinando progressivamente le sue capacità espressive e la sua volontà di comunicare un suo mondo poetico pazientemente costruito.

Certo, gli autori rappresentati nel corso di tanti anni ricoprono l’universo della grande drammaturgia; non ne manca nessuno, da Shakespeare a Cecov, a Strindberg, a Pirandello, a Svevo; rimane il rimpianto che Mauri non abbia affrontato la drammaturgia italiana contemporanea, senz’altro meno suggestiva e profonda degli autori citati e di quanti altri lui, insieme a Sturno che deve a buon diritto essere considerato complementare. Ma se questa drammaturgia nostra venisse rappresentata con un po’ di fiducia, forse potrebbe diventare rappresentativa dell’epoca attuale, come accade in Inghilterra, in Francia, in Germania e così via.

Ma non siamo a rimpiangere il non fatto, bensì ad apprezzare con entusiasmo quello che i due attori hanno realizzato. E questo loro ultimo spettacolo non è soltanto bellissimo, ma porta il segno dell’esistenza vissuta in sintonia con il lavoro in teatro, e di esso rende testimonianza, vitale e artistica, soprattutto attraverso un paio dei “drammi” scelti per tale spettacolo.

Mauri ha offerto, in questa rappresentazione, un arco creativo di Beckett, partendo da un ben costruito “pastiche” iniziale, un prologo con due attori ciascuno in un suo bidone – “Finale di partita” l’ispirazione – che dialogano sulla vita e sull’arte: considerazioni che appartengono a frasi dello stesso Beckett, e che di lui danno un’immagine che, pur nella difficoltà di “classificare” l’artista, ne sfiorano il pensiero, le tematiche, il pudore. Mauri insomma ne ha teatralizzato la poetica, e così apre ai pezzi successivi, che partono da quel “Respiro” quasi soffio di vita che da una catasta di spazzatura fa emergere prima un vagito e poi un rantolo: inizio e fine dell’esistenza si presentanto  sullo sfondo di quelle immondizie, ed è folgorazione. Non a caso, quando Kenneth Tynan volle aprire il suo “Oh! Calcutta” con quell’opera dall’apparenza esigua e vi volle mettere anche degli attori nudi, Beckett gliela ritirò proibendogli di usarla.

“Improvviso dell’Ohio” è un’altra composizione qui messa in scena, misteriosa e indecifrabile, con due figure dalle lunghe chiome bianche, dove il nome di un’antica amante –  così rare le donne in Beckett! – , Suzanne, scandisce una storia triste e ripetitiva di ricordi e ritorni al battito della mano guantata di una delle due sul tavolo mentre l’altra legge da un libro sconnesso e illeggibile una storia di cose passate.

Chiude il primo tempo “Atto senza parole” ed è allora Sturno a mostrarsi nel disperato tentativo di sopravvivere dell’uomo preso a calci da un misterioso persecutore che gli fornisce strumenti poi subito sottrattigli non appena sta quasi riuscendo ad impadronirsene, finché l’allettamento dell’offerta – dell’acqua, ma anche della palma dove impiccarsi – non lo muove più a tentare, nel pessimismo del fallimento. E anche questa prova, svolta con intensa e precisa capacità rappresentativa da parte di Sturno, è un dramma che si fa emblema esistenziale.

Il secondo tempo è tutto di Mauri, ed è anche un suo offrirsi biograficamente al pubblico. “L’ultimo nastro di Krapp” è una specie di suo ricorrente monologo nel corso degli anni, in cui con piccoli cenni, brevi esclamazioni, passetti struscianti e golosi bocconi di quella banana trovata in fondo a un cassetto, l’attore inserisce la sua esistenza, il suo modo di avvicinarsi ad essa con le reazioni di chi riflette su di un passato di cui si conosce soltanto che è avvenuto, e quindi può essere di chiunque, e quindi dell’attore Mauri rispetto a Beckett, in analoga maniera. C’è una sorta di rassegnazione alla vecchiaia, di compiacimento ad una giovinezza trionfante pur se ormai lontana. E c’è che quel nastro ascoltato – “bobina 5!” – che Mauri stesso registrò cinquant’anni fa, per un suo primo spettacolo di quel dramma. Ascoltandolo ora, l’attore riunisce quel passato con l’oggi, e lo spettacolo  si fa vita e la vita spettacolo. E nonostante il geloso pudore di Beckett, qui l’emozione invade gli spettatori, e l’applauso è partecipazione liberatoria.