DONNA BRIGANTIA E ALTRE STORIE

Copertina libro Familiari

di Rocco Familiari

Marsilio Racconti, 2019

Maricla Boggio

A voler dare un’idea complessiva del libro di Rocco Familiari, “Donna Brigantia e altre storie”, un grande affresco a mosaico emerge da ciò che si imprime nella memoria di chi legge le ventisette storie che lo compongono. Storie ciascuna completa in sé, con un arco narrativo che rimanda a una drammaturgia a cui l’autore è abituato, e che pur nella brevità del racconto dispiega un inizio, uno sviluppo e una conclusione, sovente a sorpresa, con un colpo di scena che induce a meditare su quanto si è presentificato vividamente attraverso la narrazione.

Si può essere tentati di leggere a caso un racconto, attratti dal titolo, dal segreto che vi si racchiude in parole che appartengono al dialetto o sono il nome di un personaggio, oppure in appellativi singolari, ricavati dalla popolarità di un protagonista o da una sua caratteristica, o in una parola che suggerisce una vicenda tragica, sentimentale o grottesca. Nel susseguirsi dei titoli, è insito il fascino della narrazione, che, dopo un assaggio disordinato, vanno apprezzati nell’alternanza prevista dall’autore. Che dispiega, in coerenza con un proprio stile narrativo, una varietà di toni rispetto ai temi sviluppati, tale da rendere ogni volta nuova la vena di ciò che offre il racconto.

L’apertura di questo vasto teatro della vita è Donna Brigantia, ostessa potente come una divinità arcaica, e non a caso il libro prende il titolo dal personaggio. Vera certo, in quel paese calabro di qualche decennio fa, ma reinventata, con il contorno degli altri personaggi che Familiari maneggia da autore, attraverso una trasposizione di tipo freudiano, in cui tante cose che avvengono attraverso certi protagonisti possono essere raccontate senza la verità del davvero accaduto, ma di esso prendendo quello che l’estro poetico intende scegliere a suo piacere.

In quel microcosmo paesano, dove gli avvenimenti problematici si intrecciano a spudorate ironie o a fugaci apparizioni dal sapore del mito, del resto insito in quei luoghi di antica grecità, da una certa narratività colloquiale si passa poi a episodi che contengono l’intero arco di una vita, connotandola di una caratteristica che la immortala per sempre e la annovera fra i momenti che segnano una civiltà, un modo di vivere, un rinarrare nel tempo qualcosa che permane nelle leggende, come si avverte nel racconto “’I Strambi”,  una sorta di nanerottoli deformi e innocui, infelici ma miti e rassegnati, o in una sorta di epopea che riscatta personaggi conosciuti come individui qualunque, rivelatisi poi di una magica potenza interiore, come “Roccu ‘u Rozzu” o “U partiggianu”, la cui vita viene sacrificata in nome di valori da cui non possono derogare.  Ma c’è anche, come ne “I Miserabili”, il sornione raccontare di un fatto, perfino ripreso da personali ricordi, in cui si adombra l’adesione a una giustizia sociale dall’apparenza impossibile, una sorta di beffa da favola boccaccesca, in cui la povertà umiliata si riscatta, una volta tanto, attraverso le leggi dello Stato.

Sono le donne ad assurgere a eroine, in questo contesto in cui gli uomini sono spesso delineati come meschini o presi dal proprio io, o protesi nell’inseguire una maniacale ossessiva volontà di affermazione, vuoi che si tratti del sesso o della fama o della ricchezza: sono i tanti Cicciobello, Don Giovanni, Tirebouchon, ‘U Gnarru, ‘U Lupu, e anche Occhibelli pur distinto dagli altri per un che di angelica perversione nel suo ingravidare le parrocchiane. E tante sono le donne provate da una società in cui vengono usate dai maschi come una merce secondo una tradizione invalsa da secoli e come tale giustificata, come la piccola fantesca umiliata dagli esperimenti sessuali degli adolescenti della casa patrizia, come Rea la Grande Madre, che dalla schiavitù che la vuole soggetta a tutti i maschi della famiglia trae dignità attraverso quell’essere madre, datrice di vita al di sopra di ogni convenzione.

Familiari gioca con i suoi racconti addestrandoli alla sua volontà, di commuovere o divertire, o sogghignare nella scoperta pirandelliana di un trucco, di una mania, di un segreto che ineluttabilmente emerge, a vergogna del personaggio o a suo riscatto. E ci sono momenti sublimi, che con arte l’autore ha disseminato come semi preziosi da scoprire a sorpresa. Così è per Giuditta, che si erge su di un panorama di viltà maschili e trascina con la sua forza amorosa le donne a ribellarsi. Così è per l’Aspettatore, per il quale l’autore ha addirittura coniato una parola tanto il personaggio è simbolo di un sentimento di forza sovrumana, nell’attesa di un evento che non può accadere ma che si invera attraverso la fiducia nell’impossibile e conduce inevitabilmente alla morte. Dopo questa altezza espressiva, Familiari non può che portare i lettori a un altro registro. Conclude quindi con “Il Necrologista”, che la fantasia del tutto libera sviluppa di invenzione in invenzione, mai sazia di quanto ha inventato, arrivando a far diventare, un inventore di necrologi in cui ad ogni morto che appare sul giornale si associa nei più impensabili aspetti, addirittura quello che diventerà il nuovo presidente della Repubblica, non essendoci nessun altro così al centro del mondo.  Partendo da un paesino immerso nella mafiosità bonaria di un dopoguerra ancora sensibile alle tradizioni, i racconti si susseguono in un aereo cavalcare fino a un evento che, paragonandolo all’oggi, potrebbe, proprio per la sua assurdità, ricongiungersi con la più possibile realtà.