DUE DOZZINE DI ROSE SCARLATTE

ARIANNA NINCHI 1

di Aldo De Benedetti

regia di Fabio Gravina

con

Fabio Gravina

Arianna Ninchi

Giuseppe Cantore

Mara Liuzzi

scene Francesco De Summa

costumi Paolo Riolo

musiche Mariano Perrella

 
Roma, Teatro Prati, 17 novembre – 6 dicembre 2015

Maricla Boggio

Incurante del tempo trascorso – circa ottant’anni – “Due dozzine di rose scarlatte” continua a mantenere intatta l’eleganza del meccanismo di scrittura ideato da Aldo De Benedetti nel 1936, quando una prestigiosa compagnia di prosa, i cui protagonisti erano Vittorio De Sica e Giuditta Rissone, allora sua moglie, la mise in cartellone ricavandone un successo clamoroso.

Erano anni tragici, e l’arguzia con cui l’autore scriveva le sue opere per il teatro evitava l’impatto con gli avvenimenti che in pieno fascismo l’Italia stava subendo. Chi viveva in quel periodo e voleva continuare ad avere spazio e prestigio, doveva ignorare il clima di violenze che andavano crescendo a svantaggio della libertà, oppure taceva, o cercava di opporsi a quel regime emigrando o operando di nascosto, o prendendo parte a un movimento a contrasto, come poi avvenne con la Resistenza.

Fabio Gravina, che da anni ha creato un suo teatro – il Prati – in cui privilegia un repertorio proteso a un divertimento ironico di buona scrittura altrettanto ben riportato in scena dalla sua compagnia, ha ripreso la commedia preoccupandosi di mantenerne intatta la riuscita del meccanismo a sorpresa, tanto più leggero e pretestuoso quanto più godibile per la perfezione del suo svolgimento, via via destinato a sorprendere lo spettatore.

In breve la trama. Alta borghesia romana, casa elegante, coniugi sposati da dieci anni, in crisi di noia. Lui – Alberto Verani (Fabio Gravina) – ingegnere arricchito, superimpegnato negli affari, a cui collabora un antico compagno di scuola divenuto avvocato – Tommaso Savelli (Giuseppe Cantore) -, che viene amorosamente maltrattato e si mette a disposizione per ogni richiesta. Lei – Marina Verani (Arianna Ninchi) – bella donna – onesta – ma smaniosa di divertirsi – onestamente -, che ha deciso di farsi da sola una vacanza a Cortina, cercandovi una qualche avventura – onesta – che le porti un po’ di svago per una settimana o giù di lì. Sono ueste le confidenze fatte all’avvocato amico di famiglia, come del resto a lui fa anche il marito, che in assenza della moglie sogna una qualche avventura che possa capitargli per caso, e per questa intenzione viene blandamente rimproverato dall’amico. Ma ecco l’occasione: uno sbaglio telefonico mette l’ingegnere nell’occasione di inviare quelle “due dozzine di rose scarlatte”, erroneamente richieste al suo telefono anziché al fioraio, alla contessa – bellissima, a detta dell’avvocato – che le attende, con un biglietto, a firma “Mistero”, pieno di dolci frasi, misteriose e presaghe di futuri rendez-vous. Quelle rose, l’ingegnere se le fa portare a casa, volendo che alla contessa sia  l’amico condiscendente a recapitarle; ma quel mazzo sensuale viene intercettato dalla moglie che subito ne legge il biglietto e si appropria delle rose, pensandole inviate per lei da uno sconosciuto spasimante. Visto fallito il suo piano, l’ingegnere ne ordisce un altro. La moglie ha rinunciato al viaggio, incuriosita del misterioso amante, sarà quindi il marito in tutta segretezza a continua a inviare mazzi di fiori ogni giorno alla moglie inconsapevole, accompagnate poi da lettere sempre più infuocate a cui la donna risponde con altrettanta passione.  La situazione degenera, perché Marina decide di rivela al marito l’esistenza di quell’amante mai visto ma che lei immagina e con cui vorrà andare a vivere.

Al marito non resta che andarsene da casa, non riuscendo per imbarazzo e ostinazione ad arrivare a spiegare il tranello ordito da lui: è qui che la commedia e il suo interprete raggiungono il massimo della riuscita del gioco, in una sorta di perverso sdoppiamento dell’ingegnere tradito da se stesso.

Sarà il mite e succube avvocato a cercare di avere un vantaggio dalla situazione incresciosa, rivelando a Marina di essere lui l’amante segreto, e da questa – falsa – rivelazione il povero avvocato Cantore non potrà che ricevere rimproveri dall’indignata Marina, e poi anche dall’esasperato ingegnere.

Chiaro quindi che poi tutto finisce bene. Nessun tradimento – ci mancherebbe altro!, le donne in epoca fascista non potevano tradire, i mariti sì, e con vanto – mentre la pace torna fra i coniugi, a dispetto del povero avvocato messo alla porta. Per un attimo i disamorati Alberto e Marina si illudono di aver ritrovato l’amore, ma si prevede che esso sia destinato a svanire in breve tempo, sconfitto dalla noia di un’esistenza priva di interessi e ancor più di ideali.

Fabio Gravina ha segnalato con qualche tocco il senso del disagio di un’epoca segnata dal fascismo; lo ha fatto mostrando, all’inzio della commedia, l’avvocato intento a sfogliare un numero del Corriere della sera in cui grandeggia una dichiarazione di Mussolini in piena pagina. Forse avrebbe potuto far sentire qualche suono minaccioso filtrare dal giardino della casa borghese, proveniente da un esterno in cui in quegli anni accadevano fatti di violenza e delitti ad opera dei sempre più facinorosi sostenitori del regime. Ma se così fosse stato, tutta la commedia avrebbe dovuto mostrare l’inquietudine dei tempi, e la vuotaggine dei personaggi in scena. La scelta è stata invece di mostrare il meccanismo perfetto, e Gravina ci è riuscito, con tutta la carica di animosità e di simpatia che ha tratto dal suo ingegnere. Mentre Arianna Ninchi ha offerto della sua svagata sposa il senso di una sofferenza interiore appena emergente dall’atteggiamento sicuro e dispotico di donna ricca e volubile, tuttavia alla ricerca di una ragione per vivere, e lo ha fatto con classe e con una maturità al di là dei suoi anni, ancora molto giovanili. Con tempi esatti e una recitazione misurata e consapevole delle possibilità da trarre delle sue fulminanti battute, in bilico fra bonomia partenopea e stile misurato di tipo inglese, Giuseppe Cantore dà vita al suo bistrattto avvocato Savelli, a cui dobbiamo aggiunge le apparizioni ineappuntabili di Rosina la cameriera – Mara Liuzzi – , davvero un segno di tempo mutati, in cui la servitù veniva bistrattata.

E il pubblico si è divertito a seguire con partecipazione la curiosa vicenda e ha applaudito con calore.