ECUBA

di Euripide

con Francesca Benedetti

e

Maria Cristina Fioretti Viola Graziosi

Maurizio Palladino Graziano Piazza Elisabetta Arosio

Sergio Basile Gianluigi Fogacci

drammaturgia e regia Giuseppe Argirò

Roma, Teatro Arcobaleno, 23 marzo 2019

Maricla Boggio

 

Che siano i vincitori a raccontare una storia di guerra dalla parte dei vinti ha caratterizzato la grande saggezza dei Greci, che pur di guerre avendone fatte parecchie meditando sulla storia si sono convinti che una guerra è sempre deprecabile, per l’enormità delle sofferenze che produce e l’inutilità che ne deriva una volta superato l’attimo di ebbrezza dopo una vittoria, ben presto offuscata da altre sconfitte.

Dal tempo dei Greci niente è cambiato fino ad oggi, se, ascoltando questa “Ecuba” di Euripide, elaborata drammaturgicamente con fine sensibilità da Giuseppe Argirò che ne firma anche la regia, le considerazioni che ne emergono paiono scritte per le situazioni belliche in cui ci troviano attualmente a vivere, e più ancora di questo assunto è il patire delle donne a superare quello delle morti in battaglia,  private come sono di ogni affetto familiare, violentate e rese schiave del nemico.

Ed è la capacità di Argirò a evitare i trascinanti cori adatti agli spazi all’aperto, e i monologhi altrettanto necessari in un clima di novità quando gli spettatori dell’Ellade affrontavano la loro mito-storia, a rendere la vicenda degna di essere seguita con modernità di linguaggio pur mantenuto a un livello alto, e soprattutto a sentirsi immedesimati e partecipi dei sentimenti che animano la storia, in una sorta di esemplarità senza tempo.

Centro attrattivo della tragedia e il personaggio di Ecuba, a cui va il tiolo come elemento a cui fanno capo tutte le varie situazioni di questo momento successivo al trionfo dei Greci su Troia, quasi una breve parentesi in cui tutto o quasi è già avvenuto, ma nel breve giro di un giorno, dopo quei dieci anni infiniti, si compie davvero appieno ciò che doveva concludersi secondo la forza assoluta del dolore.

Protesa a far emergere da sé tutta la sofferenza patita, come se si scavasse dentro con occhi di fuoco, Francesca Benedetti dà vita alla sua Ecuba passando a differenti gradi di sentimento, dalla calma meditativa alla ferocia, dalla disperazione a cui manca il suono della voce alla ben giustificata perfidia della vendetta, così come prima dell’avvento della Legge si aveva il diritto di agire per vendicare l’ingiustizia.

Questa interpretazione della sua gigantesca Ecuba, Benedetti lo fa con la naturalezza di chi ha a lungo maturato il personaggio fino al punto da dimenticarlo facendolo proprio.

Scorrono così secondo un’attrazione ipnotica le ultime fasi della sconfitta. La notizia portatagli dall’astuto Ulisse, che dovrà essere sacrificata Polissena sulla tomba di Achille, è un colpo ulteriore alla sua pena, che nel dialogo con la ragazza trova le corde della tenerezza materna.

È poi la volta della scoperta che anche l’ultimo suo figlio sopravvissuto – Polidoro – mandato da Priamo in Tracia dall’amico Polimestore con un’ingente quantità di oro per salvarlo dall’essere ucciso, è stato assassinato da re che lo ha ospitato per appropriarsi di ogni sua ricchezza.

Bene ha fatto Argirò a superare la presenza del fantasma di Polidoro per incentrare la vicenda sulle reazioni di Ecuba. L’arrivo di Agamennone, che Sergio Basile interpreta con pacata gestualità da nobile palermitano di classe e altrettanta suasività vocale, induce Ecuba a trattare il sovrano alla pari nella sua regalità ferita ma non perduta, al punto da chiedergli di aiutarla a vendicarsi dell’orribile sciacallaggio da parte di Polimestore assassino del figlio. Ne otterrà il consenso, sia pure, da mafioso ante litteram quale si comporta Agamennone, senza una reale partecipazione, ma senza una opposizione. Così Polimestore  – un convincente Gianluigi Fogacci dall’equivoca duplicità – , dopo un tentativo di raccontare alla madre che Polidoro vive e sta bene, sarà ingannato atrocemente utilizzando la sua stessa cupidigia, e nelle tende delle donne troiane in attesa della partenza verrà ferito a morte e accecato. Gli accenti trovati da Benedetti nel compiacersi per le false notizie sul figlio felice hanno gli accenti di una vendetta in attesa di deflagrare. Bravi tutti gli interpreti, le attrici Maria Cristina Fioretti e Elisabetta Arosio a cui va il compito non facile del coro, la giovane Polissena di Viola Graziosi, l’Ulisse nevrotico di Maurizio Palladino, e il Taltibio di Graziano Piazza, le cui stampelle, credute un’idea registica, si son poi sapute vere, per un intervento appena eseguito in ospedale: potenza del teatro e della sue magiche risorse salutari!