FERDINANDO

APPLAUSI IMG_0952di Annibale Ruccello

con

Gea Martire

Chiara Baffi

Fulvio Cuteruccio

Francesco Roccasecca

Scenografia Luigi Ferrigno

costumi Carlo Poggioli

Regia Nadia Baldi

Produzione Teatro Segreto

Piccolo Eliseo, 18 ottobre 2017

Maricla Boggio

Emerge sempre il rimpianto per la scomparsa di Annibale Ruccello quando si assiste a uno dei suoi testi teatrali, i tanti scritti nella sua breve vita stroncata per un incidente, i pochi che avrebbe potuto offrirci con la sua inesauribile vena di poeta, drammaturgo e antropologo – sua la laurea con unatesi su “La cantata dei pastori” subito pubblicata –  sotto l’egida di Luigi M. Lombardi Satriani – , qualità che messe insieme ne hanno fatto uno dei più interessanti autori di questi decenni.

“Ferdinando” appartiene all’ultimo periodo, quando quasi trentenne Annibale pare spiccare il volo per un successo maturo, mentre pochi mesi dopo terminerà la sua esistenza.

Premio IDI, per il testo nel 1985  e per lo spettacolo nel 1986, il testo con produzioni è andato in scena varie volte, oltre alla rappresentazione in cui lo stesso Annibale, anche attore e regista, vi interpretava Don Catellino. Quattro i personaggi del testo: il prete  vizioso abitudinario della casa di Donna Clotilde, la dispotica padrona di antica nobiltà borbonica, servita dalla cugina Gesualda, povera e costretta sopportare le bizzarrie della parente ricca, mentre il giovane Ferdinando a quel trio consolidato nelle abitudini bizzarre e nei segreti vizi si aggiunge, arrivato di lontano, preceduto da una lettera di un autorevole notaio, a chieder protezione e affetto, orfano e solo com’è, alla più prossima parente che è Donna Clotilde. E fin dal suo nome borbonico, il ragazzo è accolto con gioia.

Diviso nettamente in due parti dai climi opposti e dai ritmi conseguenti, il testo mostra un “prima” e un “dopo” rispetto all’arrivo di Ferdinando.

Noia e insofferenza  caratterizzano i comportamenti dei tre personaggi nel primo atto. Vi domina Donna Clotilde, con il suo logorroico monologare, a cui a stento e per poche parole si inseriscono di volta in volta la giovane Gesualda e Don Catellino.

Gea Martire in questo monologare di Donna Clotilde mette a segno un trionfo di invenzioni linguistiche e tonali, aggiungendo alla perizia prodigiosa di Ruccello la sua di attrice. Con inimitabile velocità il personaggio. rifugiatosi in uno sperduto paese del Meridione, fa e disfa ragionamenti e critiche al mondo che le appartiene, di antica aristocrazia borbonica in pieno 1870, data fatidica dell’affermazione del regno d’Italia, da lei misconosciuto e disprezzato.

Ruccello muove con sagacia il complesso articolarsi di questa mentalità che rifiuta la novità politica di un’Italia che tende a  liberarsi dalle pastoie nobiliari ed ecclesiastiche e ne fa un capolavoro teatrale. La finta remissività di Gesualda è ben espressa da una Chiara Baffi più matura della sua giovinezza, capace di costruire il suo personaggio attraverso intonazioni variate che dal grottesco passano al comico all’allusivo, al drammatico, come poi avrà modo di esibire specie nella seconda parte dello spettacolo. Don Catellino è un prete fattosi tale per bisogno, e del suo rango utilizza i mezzi coercitivi della confessione e dell’autorità, per fini non certo religiosi. Fulvio Cauteruccio ne esibisce con sottile capacità mimetica i lati più laidi e al tempo stesso miserevoli, in quel linguaggio che sa di sacrestia ma anche di povertà di origine, come si evidenzia nella non semplice scrittura di Ruccello.

La seconda parte risente dell’arrivo del giovane Ferdinando che chiude il primo atto. E’ una sorpresa ben sottolineata dalla regia di Nadia Baldi che si traduce in una allegria di costumi esibiti da Donna Clotilde ritornata ai colori di una vita da tempo trascurata, in un allegro incrociarsi delle voci di lei e dei due antichi compagni di  tristezze che rinvigoriti dal vivace Ferdinando inventano ogni sorta di divertimenti, sempre celati sotto aspetti religiosi, di feste chiesastiche a celebrare  santi ed arcangeli.

L’astuzia finto-ingenua di Ferdinando conquista i tre ingenui illudendoli di essere ciascuno l’essere scelto per godere dei suoi favori: Francesco Roccasecca vi imprime il suo ardore giovanile a doppia faccia, che è il segreto del testo di Ruccello, la sua viziosità affascinante e perfida sotto un’apparenza di virtù.

Ma l’odio che circola fra i tre pretendenti all’amore di Ferdinando arriva a eliminarne uno, in fondo il più debole, di fronte alle due agguerrite e solidali donne. Don Catellino, convinto a scrivere una lettera al cardinale. di pentimento per una condotta scoperta immorale, morirà avvelenato dalle due implacabili donne.

Nel complesso articolarsi della trama, una sorpresa viene tenuta in serbo per concludere la storia. Ferdinando non è il parente povero di Donna Clotilde ma Filiberto figlio del notaio, per di più con un nome savoiardo. La conquista di uno scrigno con dei preziosissimi gioielli trafugati da Donna Clotilde in gioventù ad un principe, è il motivo di tutto questo tramare ed agitarsi del ragazzo. E Filiberto se ne andrà con i gioielli, ad anticipare un nuovo mondo di arruffoni e di profittatori, non migliore del precedente.

Ruccello h costruito il suo finale con l’eleganza di un autore a cui non tanto importa il contenuto dell’opera, ma il clima, il linguaggio, i sentimenti che aleggiano nell’aria, veri o falsi che siano. E lo spettacolo ci offre questo disincanto che è incantevole, questa grazia liberata da ogni  impegno.