I FRATELLI KARAMAZOV

cop karamaz 2

di Fëdor Dostoaevskij

versione teatrale di Glauco Mauri e Matteo Tarasco

con Glauco Mauri e Roberto Sturno

e

Paolo Lorimer Pavel Zelinskiy Luca Terracciano

Laurence Mazzoni Giulia Galiani Alice Giroldini

scene Francesco Ghisu

costumi Chiara Aversano

musiche Giovanni Zappalorto

luci Alberto Biondi

regia Matteo Tarasco

Roma, Teatro Eliseo, 8 febbraio 2019

Maricla Boggio

A monte della forte riuscita dello spettacolo, va messa in primo piano la capacità di immedesimazione nelle complesse problematiche sviluppate da Dostoevskij nel suo romanzo “I fratelli Karamazov” a cui ha dato vita Glauco Mauri, trascinandovi tutta quanta la compagnia degli attori: è questa la chiave per cui un testo così difficile, nato in Russia per essere letto più di centocinquant’anni fa, e pubblicato a puntate sul “Messaggero russo”, diventa vivo linguaggio scenico attraverso la vocalità e la gestualità degli interpreti.

E non è certo facile dipanare l’intricato presentarsi dei sentimenti dei protagonisti, dove i figli rivaleggiano fra loro ma tutti quanti si coalizzano contro un padre a un tempo odiato e temuto: materia affrontata da Freud in opere come “Totem e tabù” dove il padre padrone di tutte le donne viene ucciso dai figli. E ancora più problematico si fa il discorso plurimillenario dell’esistenza di Dio e della sua morte: in questa assenza di Dio si profila il Nietzsche che da tale assenza deduce che tutto sia possibile, e quindi il delitto senza giustificazioni. Tema che riemerge nel mondo attuale, e che in tale gratuità hanno trovato spazio efferati movimenti terroristici.

Poche righe, queste, per accennare appena alla gigantesca capacità interpretativa di Mauri e dei suoi attori, guidati con intuitiva e insieme razionale intelligenza da Matteo Tarasco, attento a non cadere in sterili quérelles e badando a dare vita alle tematiche di fondo attraverso i diversi ritmi della recitazione.

Chi vuole conoscere la trama si legga il testo, e si veda lo spettacolo.

Noi segnaliamo la figura di Fëdor Karamazov che in Glauco Mauri trova la duplice dimensione del padre terribile e del farsesco viveur, che attraverso l’ambivalenza dei toni drammatici e delle capricciosità clownesche gioca a tenere sotto il suo potere i figli, tanto diversi l’uno dall’altro, quanto analoghi nell’oscura e soltanto a tratti confessata volontà di omicidio.

Di Roberto Sturno – Ivan, il più amato e il più bellicosamente in contrasto con lui –  va detta la violenza espressiva del complesso svilupparsi del personaggio, con un momento di particolare intensità nell’interpretazione del monologo del Santo Inquisitore, che recita tutto quanto in terza persona lanciandolo con violenza contro il pubblico, in quell’ipocrita agire contro il Dio tornato sulla terra a far miracoli e da lui minacciato di morte, a patto che sparisca e non si faccia vedere mai più: quanto di “Mistero buffo” emerge in questo racconto che è di una simbolicità ipnotica.

Il Dmitri di Laurence Mazzoni ha l’irruenza che si addice al carattere del personaggio, in bilico fra disperazione e richiesta di amore. L’Aleksej di Pavel Zelinskiy ha una verità querula e mite, a contrasto con la violenza dei fratelli, una bella prova di un attore da poco uscito dall’Accademia. In dialogo con lui lo Starec Zosima di Paolo Lorimer, a cui va il compito, in apertura, di portare alla luce il tema del perdono e dell’amore.  Allo Smerdjakov di Luca Terracciano va il compito dell’ambiguità dei comportamenti, succube e servo di fronte al padre che non lo ha mai riconosciuto, votato poi a una confessione tardiva e sollecitata da Ivan, circa la reale attuazione del parricidio, che ingiustamente sta scontando Dmitri creduto colpevole. Nelle due parti femminili ben si confrontano Giulia Galiani nel ruolo della Katerina ambiguamente proba e Alice Giroldini nella Grusen’ka donna perduta che affiancherà Dmitri nell’espiazione di una pena – i lavori forzati –sentita come dovuta non solo per sé ma per l’umanità intera.

Gli spettatori hanno seguito con massima attenzione l’intero spettacolo, a dimostrazione che quando i temi e gli interpreti sono validi, si possono affrontare argomenti profondi al centro della propria esistenza.