di Anton Pavlovic Cechov
uno spettacolo di Alessandro Serra
con
Arianna Aloi – Duniaŝa, Andrea Bsrtolomeo – Jaŝa, Leonardo Capuano-Lopachin
Marta Cortellazzo Wiel- Anja, Massimiliano Donato- Epichodov, Chiara Michelini-Carlotta,
Felice Montervino-Trofimov, Fabio Monti-Gaiev, Massimilisno Poli- Simeonov-Piscik
Valentia Sperlì-Ljubov, Bruno Stori-Firs, Petra Valentini-Varia
Roma, Teatro Argentina, 25 febbraio 2020
Compagnia Orsini, Accademia Perduta-Romagna Teatri, Teatro stabile del veneto. TPE Teatro Piemonte Europa, in collaborazione con Compagnia Teatropersona, Triennale Teatro dell’Arte
Maricla Boggio
Regista di particolare sensibilità visiva e sonora, Alessandro Serra ha affrontato il “Giardino” di Cechov come una partitura interiore. È una dimensione che gli si attaglia nella rappresentazione di spettacoli i più diversi fra loro – come il “Machbettu di sarda sonorità – ed ora questo, apparentemente lontano dal primo.
Per entrare nel mondo di Serra, di questo “Giardino” si deve esserne all’oscuro, assistendovi come a una straordinaria novità, oppure conoscere il testo cechoviano parola per parola, personaggio per personaggio e ovviamente scena per scena.
Il risultato emozionale è forse lo stesso, perché poco importa ignorare – o conoscere – i personaggi nella loro realtà di scrittura, ma esserne attratti dal gioco che tutti insieme, in un lavoro di gruppo, Serra ha impresso al racconto prescelto. Memoria di una vicenda o invenzione personale sul filo di quella memoria, si assiste a uno sprizzare sorprendente di momenti di vita rivissuta, con la ingenua ludicità dell’infanzia, che possiede tuttavia un intenso desiderio di morte – è la morte dell’infanzia, che tenta ogni bambino -.
Tutti sdraiati, i personaggi, e all’oscuro, sul palcoscenico, come bambole dimenticate, nell’attesa gelida dell’arrivo da Mosca di Ljubov e di Anja, come morti insieme a quanti arriveranno, pronti a rinascere a quell’entrata– ricordo o realtà? – e far ripartire la vita, che si srotola come un film à rebours.
Guidati da una misteriosa liaison fra Serra e chi appartiene alla scena, si susseguono i momenti della commedia, dramma o allegra spettacolarità. I personaggi giocano o si rattristano sulle loro battute, le intrecciano formando fra loro lunghe girandole danzanti, poi tacciono d’improvviso, bambole meccaniche obbedienti al despota-demiurgo.
Raccontare la storia è inutile appesantimento, chi non conosce il “Giardino”? Emerge nella scelta espressiva la magia misteriosa della governante-maga Carlotta: è a lei che, per interposta persona, come Ariel rispetto al Mago della Tempesta, Serra indica come indurre i personaggi ad agire, inconsapevolmente comandati e obbedienti. Dentro a questi ampi spazi magici avvengono i dialoghi, i ricordi tristi – il figlio di Ljubov annegato cinque anni prima, che ha determinato la fuga della madre a Parigi, per dimenticare quel lutto immergendosi in un amore distruttivo, il complesso andamento dei debiti e della vendita del giardino dei ciliegi, che invano Lopachin, figlio di servi della gleba, propone a Ljubov di acquistare per farne spazi per villini e fruire di un grosso patrimonio.
Ruota tutto su questa impossibilità dei nobili a comprendere la necessità di adeguarsi alle nuove esigenze, mentre spunta una nuova classe, ma di tante sfaccettature composta, da quella di Lopachin in fondo affezionato e disposto a fare l’interesse degli antichi padroni, invano allertati del pericolo di cadere in miseria. Ma c’è poi la speranza di un futuro migliore per tutti, ed è l’eterno studente a sostenere tesi politiche, tuttavia mescolate a personale inerzia e a mancanza di reale capacità di amare.
E ancora il dramma fra Varja, adottata da Ljubov, che tutti pensano destinata a sposare Lopachin, un amore impedito dalle differenze intellettuali, dal ritegno a rivelarsi all’altro, un ulteriore fallimento. Innumerevoli le sfaccettature di sentimenti, che Serra getta in scena, fra complessità e semplicità, da afferrare al volo senza starci a ragionare, come per una musica o una pittura.
Dall’ora e un quarto prevista, in realtà si aggiunge un’altra mezz’ora. Ed è questo tempo che crea talvolta un eccesso di ripetizioni, di simboli sempre significativi, ma che nella seconda parte creano una certa dilatazione, voluta ma non sempre efficace.
Firs porta su di sé il senso del tempo perduto, il peso di un’epoca trascorsa e destinata a morire, nell’indifferenza di quanti tentano di salvarsi, partendo. I bicchieri che tintinnano nel vassoio che avrebbe dovuto servire a un brindisi allegro; le sedie che si accatastano in una sorta di prigione, ormai vuote di persone; la terra che Lopachin , da un mucchio a palate getta sul fondo restandone ricoperto, e altri elementi simbolici hanno una loro bellezza che potrebbe essere più contenuta, sfuggente, meno sottolineata. Sono marginalità che possono essere dimenticate, in uno spettacolo di forte impatto poetico.