IL GRANDE MAGO

(tratto da una storia vera)

 

di Vittorio Moroni

 

con Luca De Bei

 

regia di Giuseppe Marini

 

costumi di Sandra Cardini

 

Teatro dei Conciatori, Roma 15 gennaio 2013

Maricla Boggio

 

Evocato da un suono leggero mentre la luce scaccia il buio nel silenzio della sala gremita, in attesa, Luca De Bei divenuto Andrea, caschetto biondo, camiciola candida e bianchi jeans adolescenziali, nudi i piedi nervosi, le labbra lucide di rossetto, angelico e indifeso, carico di quella storia che terrà gli spettatori protesi a sapere per quasi un’ora e mezza, senza respiro né momenti di stanchezza, si offre con la dedizione e l’umiltà che sono suoi in ogni interpretazione.

Che il monologo sia tratto da una storia vera porta alla riflessione che questa vicenda, così carica di dolore e di determinazione svoltasi nella nostra epoca, adesso sia arrivata alla sua conclusione: il protagonista reale ha raggiunto la situazione per anni da lui fortemente voluta, sopportandone al tempo stesso le conseguenze negative; ma la sua volontà ha trionfato su ogni ostacolo, soprattutto sul giudizio di quanti un tempo l’avrebbero demonizzato.

Va subito dato atto all’attore che lo interpreta, di aver vinto la prova di un narrare complesso e sfaccettato che presenta tutti i lati di una vicenda difficile da vivere e quindi anche da raccontare. Fuori scena, Luca De Bei rivela di non recitare da otto anni, è tornato a farlo con trepidazione, ma impegnandovi la cura che con metodo applica agli altri suoi impegni di regia e di scrittura. Forse proprio quel non essere più abituato a interpretare lo ha indotto a studiare con cautela tutti i risvolti, di umanità e di creatività, che il suo personaggio comporta. In questo percorso è stato coadiuvato da un testo, di Vittorio Moroni, di notevole lucidità narrativa, e da una regia, di Giuseppe Marini, attenta a scavare nelle parole e a valorizzarle con apporti non estranei al contesto drammaturgico, tenendo conto delle possibilità espressive dell’interprete e non forzando la mano con facili effettismi, trattando anzi con pudore una materia spesso difficile

Complessa la vicenda – ma l’elemento più importante sta nel modo in cui la materia è trattata – , una storia che inizia dai quindici anni del protagonista, un delicato Andrea a cui una compagna di classe smaliziata fa conoscere l’amore toccandolo fino a farlo venire, esperienza vissuta come una umiliazione, un disagio fino al vomito. Da questo momento la salita verso il rifiuto della propria mascolinità si fa sempre più pressante.

Popolano il monologo altre figure, delineate da Bei attraverso un semplice gesto, un cambio di voce, un atteggiamento: la madre apprensiva e tenera, il padre di cui odia l’aspetto perché gli ripropone un se stesso rifiutato, la compagna conosciuta durante il servizio civile ( ha rifiutato la leva), la trans che lo affiancherà nella scelta del cambio di identità.

L’amore per Anna, una giovane donna dal passato di tossicomane, per un po’ si rivela salvifico; i due si capiscono e si amano, ma come due donne, finché l’altra gli chiede l’amore completo, e lui pur di accontentarla starà con lei come un uomo, ma sempre con un certo ribrezzo.  Dal rapporto nasce un bimbo, a cui Andrea dà tutto il suo affetto in una gioia di scambi e di felicità infantili. Ma i contrasti diventano ben presto feroci, perché quel suo diventar progressivamente donna complica i rapporti, e il bimbo stesso quando comincia ad andare a scuola, dove gli altri osservano e giudicano, si trova in difficoltà e non riconosce più in quella creatura femminile suo padre, mentre Anna si trova un uomo, che alla fine scaccerà di casa quell’ibrido Andrea, e anche il tribunale minorile gli negherà  di vedere il figlio, ritenendo la sua presenza dannosa all’equilibrio  psichica del bimbo.

La scelta inevitabile a cui Andrea va incontro come spinto da un destino che lo possiede al di là degli affetti che è destinato a perdere arriva come una liberazione. Ma la speranza della riconquista del figlio ormai cresciuto tiene la mente e il cuore del padre diventato Aurora, nome emblematico dell’inizio di una giornata immaginata radiosa. Il figlio occupa la mente di Aurora, che per anni si impegna in umili lavori con lo scopo di offrire una casa a quell’essere adorato; a lui dedicherà i suoi giochi di mago che attinge dalla fantasia ogni immagine di bellezza. Così in una solitudine conquistata alla serenità di aver compiuto un percorso inevitabile, la storia si chiude. Ma rimane l’eco delle intonazioni di Luca De Bei a evocare una storia ricavata dalla realtà ma proiettata in una dimensione teatrale, quindi metaforica; rimangono le immagini dei suoi gesti di elfo luminoso e puro a raccontare una moderna favola, da non considerare in chiave realistica, ma accettandone il messaggio liberatorio, che è di amore e di dolore insieme.