IL MONDO MAGICO DI GIANCARLO SEPE

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Maricla Boggio

“La sperimentazione, per me, non è soltanto la visione che tu hai di un testo o di uno stato d’animo, ma la possibilità di inquadrarla in uno spazio”.

 

Questa affermazione, più volte ripetuta nel corso dell’incontro plurimo avuto da Giancarlo Sepe con Silvana Matarazzo, sta alla base degli spettacoli che il regista, anche attore e autore dei suoi spettacoli, realizza mediante un lavoro di ricerca che attraversa più di mezzo secolo di attività, con la creazione di decine di realizzazioni teatrali, in una coerenza espressiva che rimane fedele a sé stessa pur adeguandosi ai mutamenti epocali in cui si compie via via nel corso degli anni.

Difficile dividere il percorso personale di Giancarlo Sepe da quello dei suoi spettacoli. Silvana Matarazzo ha dato voce al protagonista del suo libro come se fosse una creatura che ha accettato di parlare di sé in quanto personaggio. Nasce bambino, intento al gioco di inventare trame e situazioni assieme a dei compagni improvvisati attori che negli spazi suggestivi della propria casa ubbidiscono ai dictat del ragazzino Giancarlo, indomiti di fronte a prove incredibili come la trasposizione  dei “Dieci comandamenti” del mastodontico film di De Mille. Questo suo fare senza limiti gli consente di non sentire come un ostacolo la sua balbuzie, che nei primi anni della sua vita lo aveva tormentato, anzi lo spinge a superare quella difficoltà che il regista non esita a riconoscere perfino negli anni della raggiunta giovinezza.

Si racconta da sé Giancarlo, ma è sempre Matarazzo a tenere in mano le fila del racconto, che si sviluppa come una favola fin dalle prime fasi del suo crescere. Quella necessità di mettere a fuoco lo spazio per cominciare a trovare il proprio linguaggio è premiata dal primo luogo trovato, il sotterraneo di una scuola che un professore capace di aiutare i sogni dei propri allievi gli accorda potendone disporre attraverso l’appoggio del suo partito – il socialdemocratico -. Quel primo spazio si chiamò Teatrino di via Stamira, e lo ricordo anch’io per avervi assistito a qualche spettacolo, credo “Metamorfosi” di Kafka, singolare per l’audacia di aver affrontato un testo cult in una dimensione così circoscritta e senza particolari mezzi. Molte le peregrinazioni della compagnia che andava formandosi attorno al suo nume. Ma tenere saldi gli interpreti pur cambiando spazio costituiva la garanzia che la famiglia si manteneva intatta nei suoi legami interni e nella sua capacità di intendersi reciprocamente e con colui che la animava di vita organicamente coerente ad ogni nuova scelta.

Dopo varie inevitabili peregrinazioni, Sepe trovò il suo spazio di vita. Deludente il Beat 72, che per rivendicazioni malposte lo costrinse a interrompere uno spettacolo complicato e appena andato in scena: Sepe rifiutò poi di riprenderlo per l’avversione – credo – che gliene derivò a causa del torto subìto, e anche questo sentire così personalmente appartiene al modo di vivere e lavorare/creare di Giancarlo.

Dopo la personale presentazione di Sepe nei confronti di sé personaggio, è poi particolare il suo modo di lavorare scegliendo di un personaggio dello spettacolo una caratteristica che lo determini in maniera essenziale, da cui l’intera figura venga  illuminata. Ciò si può vedere, come esempio, ne “L’ereditiera” dal romanzo di Henry James: gli occhi spenti della protagonista sono la chiave dell’intero spettacolo.

È poi l’insieme delle luci, il loro uso abbinato alle musiche, la scenografia spesso caratterizzata da fondali neri, oppure sezionata da un corridoio che divide il pubblico da una parte e dall’altra come a imporgli una volontà di giudizio, di separatezza che moltiplica le possibilità dell’usufruizione.

Ogni spettacolo si anima della luce dei ricordi facendone rivivere la temperie, al di là della rappresentazione. Ed è bello che salti fuori, da un passato di prestigio che la malvagità del tempo cancella, il nome di Nicola Chiaromonte, grande critico dell’Espresso che, non temendo l’anonimato di quello “Stamira” ci andò una sera con la moglie incuriosito da quel “I misteri dell’amore” di Vitrac emblema del manifesto dadaista, loro due in sala dove gli attori imperterriti non tremarono di fronte a quella solitudine dei due, ed esultarono di fronte  all’inno di apprezzamenti che apparve sul settimanale della cultura impegnata. Più o meno in quegli anni, non posso fare a meno di citare che analogo apprezzamento Chiaromonte fece sul suo giornale a uno spettacolo firmato da Franco Cuomo e da me, “Santa Maria dei Battuti – rapporto sull’istituzione psichiatrica e sua negazione”. Ma allora esistevano veri critici, che credevano nell’importanza di un certo teatro.

Curioso il termine che Franco Cordelli, difficile ad amare qualche spettacolo, coniò per definire icasticamente lo stile delle rappresentazioni di Sepe: introdusse “sepiano” nel suo vocabolario privato, che essenzializzava il linguaggio scenico di Sepe, un termine che forse rimase nell’ombra, ma che può essere rivendicato da Sepe con l’orgoglio di aver conquistato un così rigido critico.

Sepe trovò il suo spazio ideale, che ancora oggi permane nella successione dei suoi spettacoli in quella sorta di magazzino sotterraneo che si trova appena dietro la piazza Sonnino. Vi avvertì il respiro che gli era mancato nei teatrini precedenti, la possibilità di giocare in vari modi su quella superficie mansueta, che come un gioco si adattava ala tradizionalità come alla scansione geometrica delle divisioni, alla riduttività come allo sfondamento che le pareti nere delle quinte cancellate dalle ombre e dalle luci sapienti inducevano a misteri carichi di inquietudini.

I collaboratori agli spettacoli sono preziose parti di un tutto che comunque reca sempre la firma inconfondibile di Giancarlo. Ma Stefano Marcucci per le luci, e Uberto Bertacca per le scenografie, sono stati fra i più in sintonia con lui.

Era poi la fantasia di Sepe a piegare il testo, senza connessioni rigide ai costi. Poche centinaia di lire bastavano per spettacoli dall’apparenza sontuosa; cifre ragionevolmente alte, per la disponibilità della compagnia portavano a risultati che apparivano di gran lunga fastosi per non dire addirittura proibitivi.

Le 25.000 lire per “Scarrafonata” sono una pagliuzza in confronto ai 3.000.000 di “In albis” – uno spettacolo che Romolo Valli definì “alla Buñuel” per la sua volontà di mostrare un clima di sfascio della borghesia – ,  ma entrambi sono inconfondibilmente di Sepe: una ricchezza di arrredamenti e costumi mai vista in una cantina rilucente di scintillii di marmi e specchi, su cui spiccava l’esibizione di pellicce e di sete, che l’indimenticabile Bice Minori inventava da vecchie stole e abiti riciclati facendoli diventare il sogno di una miliardaria.

C’erano anche, fra gli organizzatori e i funzionari che a quell’epoca gestivano il teatro – esisteva ancora l’ETI, àncora di salvezza per gli autori italiani, gettato via in un baleno decenni fa e mai più sostituito – qualcuno che al di là della sua carica il teatro lo amava davvero. Bruno D’Alessandro era fra i pochi con questa sensibilità, e proprio per “Scarrafonata” lo appoggiò valorizzandone un lato davvero improbabile – “uno spettacolo divertente su Napoli, in cui ci sono molte canzoni e si balla anche” disse alla Commissione per conquistarne l’appoggio economico – mentre si trattava di uno spettacolo davvero di una durezza inarrivabile.

È importante notare che Sepe ha dato sempre notevole importanza alla parola; i testi da lui messi in scena possono essere reinterpretati, tagliati, portati a un’epoca diversa dalla scrittura, ma la parola non diventa mai pretesto superficiale alla rappresentazione. Si tratta di una caratteristica fondamentale del teatro di Giancarlo, che ha toccato alcuni fra i più grandi drammaturghi di ogni tempo, avvalendosi, quando fosse stato necessario, di quegli attori che potevano sostenere personalmente il carattere della scrittura scenica.

Ci sono nel corso di questo mezzo secolo di spettacoli, dei salti che segnano momenti importanti per il periodo successivo. Ne ricordo in particolare uno, che acutamente Silvana Matarazzo mette in risalto attraverso alcune sue domande “indagarici”. “Accademia Ackermann” arrivò a Spoleto dopo una serie di incertezze da parte di Sepe a proporre uno spettacolo a Valli che si era innamorato, portatovi da Patroni Griffi, di “In Albis”. Segnata dal destino, la scelta fu di ispirarsi a un libretto che parlava di un’accademia nazista applicata al teatro in Germania. Sepe vi lavorò senza nomi altisonanti, inventando più che in ogni altro precedente – io credo – a quel tema che oscillava fra l’orrore e il grottesco. Ricordo nel Teatrino, che allora si chiamava “delle sette”, quello spettacolo che sembrava debordare dagli spazi esigui del palcoscenico e scagliarsi contro gli spettatori con tutta la sua furia ideologica. Segnò l’aprirsi degli inviti internazionali; da allora, immagino, ci fu più sicurezza nel continuare. Anche se di vere e proprie sicurezze Sepe non ne ebbe mai.

Fare del teatro di ricerca, di creatività, di sviluppo fuori dalla norma consolidata non collima con gli algoritmi, che impongono per concedere qualche sovvenzione drasticamente la quantità delle repliche e il numero degli spettatori. Un teatro che deve inchinarsi a questi dictat non potrà mai produrre rappresentazioni valide, tranne che attraverso sacrifici immani, che pochi hanno il coraggio di affrontare e di sostenere a lungo.

È necessario leggere il bel libro di Silvana Matarazzo per entrare con discrezione, ma anche con la sensazione di appartenere alla cerchia di un gruppo di amici, nel percorso che Sepe ha proseguito fino ad oggi.

Negli ultimi spettacoli prevale un discorso che privilegia il suono, sia che si tratti di canzoni che dello stesso testo recitato, così come da sempre l’uso delle luci, la loro capacità di svelare e nascondere, inventare e rendere con fraintendimenti. È  dalla luce e dalla musica che Sepe inizia il suo percorso di lavoro con gli attori, che vi si immergono prima ancora di entrarvi come personaggi.

In particolare va citato, con la speranza di rivederlo in scena, uno degli ultimi spettacoli realizzati, “ The Dubliners” che gli ispirò il romanzo di James Joyce, nel quale la commistione fra l’inglese e l’italiano si inserisce con particolare felicità nella musica e nei suoni che animano l’intero spettacolo, in cui l’abbondanza degli attori si rivela come una complessa comunità in atto.

Questa di mescolare l’italiano ad altre lingue è stata realizzata con particolare intensità nell’ultimo spettacolo in scena alla Comunità. Il gruppo agisce con coesione tale da apparire a tratti un unico organismo in azione, a dilatarsi, a stringersi, a frantumarsi in mille elementi pronti poi a ricongiungersi trasformandosi: è “Germania anni ‘20”, un complesso con scene a coro e a voce unica che illustra con una seduttività fortissima sul piano delle immagini e dei suoni lo sfacelo di un paese segnato da una guerra rovinosa e già minato dall’incombere del nazismo. E tuttavia in questo stratificarsi di disperazione e di morte imminente l’attrazione spettacolare è immensa, e Giancarlo ha realizzato il suo frutto più maturo.

Completano il libro di Silvana Matarazzo un’introduzione di Umberto Orsini, documentata e critica quanto affettuosa e partecipe – la sua compagnia collabora agli allestimenti di Sepe -, e un saggio di Marcantonio Lucidi che vede in Sepe quel mago il cui teatro ha modificato la storia dello spettacolo.