IL SINDACO DEL RIONE SANITA’

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di Eduardo De Filippo

regia Mario Martone

con

Francesco Di Leva, Giovanni Ludeno, Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino,

Daniela Ioia, Gianni Spezzano, Viviana Cangiano, Salvatore Presutto,

Lucienne Perreca, Mimmo Esposito, Morena Di Leva, Ralph P,

Armando De Giulio, Daniele Baselice

con la partecipazione di Massimiliano Gallo

scene Carmine Guarino

costumi Giovanna Napolitano

luci Cesare Accetta

musiche originali Ralph P

produzione Elledieffe/NEST – Napoli Est Teatro/Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Teatro Argentina, 17 aprile 2018

Maricla Boggio

Di questa versione voluta da Mario Martone de “Il Sindaco del rione Sanità” vorrei parlare cominciando dalla fine. Questa commedia “dei giorni dispari”, Eduardo la scrisse nel 1960, epoca di efferatezze camorristiche ma anche di protagonisti detentori di una morale “antica” a cui la gente del rione ricorreva per ottenere una giustizia altrimenti inafferrabile.   La regia di Martone, con le sue scelte di attualizzazione e ringiovanimento dei personaggi e delle situazioni legate all’epoca, tende a scrostarsi da una concezione rigidamente votata ai dettami di un capo riconosciuto come don Antonio Barracano, mettendo in risalto con più evidenza una sua coscienza mutata, e attualizzando in scena due momenti di essenziale importanza rispetto al contesto originale. Mentre l’accoltellamento di don Antonio operato da Arturo Santaniello nella sua bottega, nel testo eduardiano viene soltanto riferito attraverso le battute successive al fatto già avvenuto, qui l’azione viene mostrata in scena, con l’immediatezza tragica della sorpresa operata dal panettiere, schiavo di una mentalità vendicativa contro un don Antonio Barracano che ha sì portato la pistola, ma non la usa, pur avendone addirittura diritto per legittima difesa. In quel gesto negato sta la novità, qui resa evidente in scena. L’altro momento “nuovo” messo in scena da Martone è la morte di don Antonio, seduto fra i suoi a quella tavola che dovrebbe essere un banchetto festoso e che ha tutta l’aria di un’ultima cena spiritualmente laica – , con il morente seduto fra il fido “apostolo”, Fabio – il dottore fedelissimo e disperato, e il Santaniello, Giuda infingardo e silenzioso, incerto sul da farsi, disposto a pagare ogni prezzo pur di salvarsi da una vendetta secondo lui prevista nelle regole camorristiche. Don Antonio non muore fuori scena, portato nella sua camera dal fido Dottore, ma repentinamente, a tavola: morte annunciata dal suono sul cristallo di un bicchiere, del coltello che ha perduto la sua vendicatività.  Silenziosi tutti quanti gli ospiti di questa piccola comunità di malavitosi e derelitti, privati del loro capo, a meditare se – come dice la lunga battuta tagliata da Martone, di Fabio il Dottore – da questa morte verranno altre vendette, oppure verrà fuori un mondo come lo sognava don Antonio, “meno rotondo, ma un poco più quadrato”. Ma davvero la battuta non serve più, di fronte al muto riflettere dei presenti, e questo eliminare, qui e in altri punti della rappresentazione, è una prova stilisticamente importante di Martone, un suo dare forza cinematografica alle scene pur mantenendo il rilievo linguistico.

Rigoroso il linguaggio dello spettacolo, dove attori di alta professionalità ed esperienza si uniscono a giovani dalle cadenze originali, in cui la collaborazione fra tre diverse formazioni teatrali crea una commistione di forte impatto espressivo. Ed è la naturalezza del linguaggio e dei gesti a introdurre lo spettatore in una sorta di contatto che impone la partecipazione, il “prendere parte” al dramma.

Di rigorosa espressività, violenta e acre quanto velata di dolcezze nei rapporti con i figli – e la piccola Morena Di Leva “recita” vero con il suo papà -, Francesco Di Leva si rivela a poco a poco nello spessore trascurato in altre rappresentazioni per tendenza all’ovvietà. Giovanni Ludeno rappresenta con toni mutevoli il dramma interiore del Dottore costretto al servizio, che lo anticipa nella presa di coscienza rispetto agli altri personaggi. E il trio degli interpreti su cui poggia la base del dramma è concluso da Massimiliano Gallo, dalla proteica personalità – basta ricordarlo come “femminéllo” in “Vico Sirene” di Fortunato Calvino – qui, nel personaggio di don Arturo Santaniello detentore di quella rigidezza equivoca destinata a protrarsi nel tempo di odi e vendette.