IL VISITATORE


di Eric-Emmanuel Schmitt
trraduzione e adattamento di Valerio Binasco
con
Alessio Boni
Alessandro Haber
Nicoletta Robello Bracciforti
Alessandro Tedeschi
musiche Arturo Annecchino
scene Carlo De Marino
costumi Sandra Cardini
regia Valerio Binasco
Goldenart Production
Roma, Teatro Quirino, dal 25 novembre
Maricla Boggio

A partire dal titolo questo testo di Eric-Emmanuel Schmitt pone l’accento su di un personaggio definito soltanto per la sua presenza: è “il visitatore”. Chi sia davvero, l’autore non lo dice anche se lo fa balenare con astuzia drammaturgica, affermandone e negandone l’identità, giocando con battute che si ammantano di teologia e filosofia, ma anche di buon senso e di ironica presa in giro, e concludendo con un interrogativo che rimane nell’aria, davanti a Sigmund Freud che si vede sparire saltando dalla finestra il misterioso “visitatore”: ma che questi non si sfracelli al suolo è già “quasi” una prova a favore della sua esistenza per l’incredulo e ateo psicanalista.

Dopo questa premessa, occorre accennare ai personaggi e alla storia che l’autore belga ha creato per una voglia bizzarra di affascinare gli spettatori non con i consueti marchingegni legati a contrasti di coppia o ad esaltazioni di personaggi famosi. Non biografia di Freud, né tentativo di denunciare il nazismo, e neanche dimostrazione dell’esistenza o inesistenza di Dio: la storia presenta risvolti reali immersi in una dimensione privata, direi addirittura intimista.
Schmitt, evitando citazioni precise da scritti freudiani, ne indaga – si intende inventando – i ricordi infantili soffocati da decenni di pratiche filosofiche; ne fa emergere antiche sensazioni esistenziali e svolte di pensiero, come quando, appena dodicenne, vide il padre non più come l’essere eccelso in cui fino ad allora aveva creduto, ma un individuo come tutti gli altri; sentì allora il bisogno di sostituirlo, quell’essere fondamentale per la sua vita, e per breve tempo inventò Dio. Queste ed altre vicende emergono da una situazione bsurreale creatasi attraverso l’arrivo di uno strano visitatore in casa Freud, nel 1938, a Vienna, quando il nazismo ormai spadroneggia infierendo sugli ebrei, e lo psicanalista è ancora indeciso se partire per Parigi e Londra abbandonando al loro destino gli altri ebrei, o se restare per coerenza con i suoi compagni di religione, anche se l’ebraismo lui non lo ha mai praticato. Si è appena avuta una scena fra Freud e sua figlia Anna, impaziente di partire per la paura di dover sottostare alla violenza nazista. L’arrivo di un soldato tedesco che chiede soldi e minaccia i due scatena la rabbia della ragazza al punto da farsi arrestare dal nazista che la porterà alla Gestapo per farla interrogare.
E’ da questo punto che il dramma di Schmitt prende quota. Come sorto dal nulla un giovane vestito in modo inconsueto, fra lo zingaro e il saltimbanco, multicolore, sciolto nei movimenti come una piuma o un filo di fumo, scattante come una palla e giocoso come un getto d’acqua o una bolla di sapone si presenta allo sbigottito psicanalista. La sospettosità di Freud si attenua e al tempo stesso aumenta nei confronti del misterioso visitatore che non ha – secondo quanto dice rispondendo alle sue domande – né padre né madre, e neanche nascita. Forse è un povero matto fuggito da un istituto, ma la sua sapienza lo fa propendere alla dimensione divina. Eppure Freud non crede in Dio, quindi il problema rimane insoluto. E’ il gioco di dialoghi e rimandi fra i due a costituire l’impalcatura teatrale ben riuscita della pièce, che mantiene in sospeso non tanto il fatto di una esistenza o inesistenza di Dio, quanto la necessità di aprirsi a un ottimismo esistenziale, nonostante il male che imperversa proprio in quegli anni invece di sottostare a una visione cupa e pessimistica della vita.
Ed è quanto mai godibile l’alternarsi dei ragionamenti dei due protagonisti, che gli attori rendono quanto mai espressivi, ciascuno in un modo interpretativo del tutto personale e diverso rispetto all’altro: Alessandro Haber proteso a una dimensione iperrealistica, scandita negli atteggiamenti di un vecchio apprensivo e malato ma dalla mente lucida e capace di ampie riflessioni, talvolta riportato a un trepido monologare infantile; Alessio Boni nell’assunzione di una imprendibilità fisica, fatto quasi aereo, non soltanto nel corpo che a suo gusto contrae e rimbalza, dilata e letteralmente arrotola, ma anche nella voce e nel riso, come nella severa denuncia di un mondo incredulo e proteso a nullificare ogni idealità nel nome di una sterile razionalità. E il tema dell’incarnazione in un corpo di uomo, di sofferenza del Cristo in un mondo percorso da violenze e ingiustizie ben si inserisce nel contesto, senza diventare predica e indottrinamento.
Schmitt manipola la materia scelta attento a scansare i traobocchetti della querelle filosofico-religiosa, e se ne allontana con astuzie teatrali: colpo di scena a sorpresa, quando torna, sana e salva come previsto dal visitatore all’apprensivo Freud, la figlia Anna, che riconosce nel visitatore l’importuno che da giorni la segue per strada sussurrandole frasi d’amore: ma allora, chi sarà davvero costui?
Ai due protagonisti va aggiunto l’apprezzamento degli altri due attori impegnati nello spettacolo, Nicoletta Robello come Anna, fra isterismi e dolcezza, e Alessandro Tedesco, il nazista, fanfarone e “cattivo” come da copione. Il pubblico ha seguito con attenzione lo svolgersi della vicenda, pur complessa e ricca di momenti gravati da ragionamenti non semplici, sfatando il pregiudizio che agli spettatori, per farli contenti, si debba offriresoprattutto divertimento e svago. Gli applausi ripetuti e intensi alla fine della rappresentazione hanno ripagato gli attori della loro lunga, intelligente e complessa fatica. Sarà possibile, con autori italiani, mettere in scena spettacoli di questo impegno? Noi crediamo di sì, anche se ci sarebbe un altro pregiudizio da sfatare, quello che la drammaturgia italiana contemporanea non attira o addirittura non esiste.