IMITATIONOFDEATH

drammaturgia Ricci/Forte

movimenti Marco Angelilli

direzione tecnica Davide Confetto

regia Stefano Ricci

una produzione Ricci/Forte

in collaborazione con RomaEuropa Festival, CSS Teatro Stabile di innovazione  del FVG-Festival delle Colline Torinesi, Centrale Fies

foto Yara Bonanni

con

Cinzia Brugnoli, Michela  Bruni, Barbara Caridi, Chiara Casali, Simona Genna, Fabio Gomiero, Blache Konrad, Liliana Laera,  Piersten Leirom Lucat, Mattia Mele, Silvia Pietta, Andrea Pizzalis, Claudia Salvatore, Giuseppe Sartori,  Simon Waldvogel

Teatro del Vascello, Roma, 24 ottobre 2012

Delle tante sequenze di cui si compone “Imitationofdeath”  descriverò quanto mi ha più colpito, perché chi legge abbia una pur vaga possibilità di immedesimarvisi: come davanti a un cieco, chi scrive interviene a descrivere mentre così va delineandosi la sua interpretazione.

16 in tutto – ragazze e ragazzi – sono già in scena quando il pubblico entra in sala, sollecitato a raggiungere i posti. Una luce radente li rivela distesi, braccia piegate in alto, indumenti essenziali. Immoti: in attesa, aumentando dentro di sé l’energia proprio per quella staticità. Forse sono morti; ma in loro si agita un principio vitale. Cominciano a muoversi, con difficoltà, sfuggendo al rischio di non emergere alla vita; si torcono gemendo, gradualmente aumentando la velocità dei movimenti fino a deflagrare verso l’alto in un in piedi liberatorio. La musica assordante è un impatto vitale che suggerisce gioia. Via via si creano attraverso i corpi fluide masse che si intrecciano componendosi e scomponendosi di continuo. Ballano, poco dopo, allacciati a coppie illusi di un dialogo amoroso pur sempre straniante, oscillando su sandali dai tacchi robusti di un bianco allucinato. Presto le coppie si sciolgono, mescolandosi in un atroce viluppo/catena che  implacabile si rigira su se stesso sostenuto da un suono lugubre, scandito, sotterraneo. I ragazzi indossano corna, nasi adunchi, occhiali mostruosi e proseguono a incatenarsi l’un l’altro nel girone infernale, mentre via via è strappato a ciascuno quel coturno gessoso con una violenza castrante; le maschere vengono gettate a terra e riemergono i volti sfigurati dallo sforzo. Infine si staccano l’uno dall’altro come esili frantumi e gridando si aggirano per lo spazio a volte illuminato a volte immerso, di colpo, nel buio.

Una ragazza descrive urlando i suoi rapporti sessuali. Li grida provocata dalle staffilate di chi a turno la percuote gettandole sopra dei jeans sdruciti. Avvenuti in vari luoghi, con persone vecchie e giovani, con estranei e amici, in modi bizzarri o comuni si sussegue la denuncia dei rapporti: la differenza è dettata dal tempo impiegato a consumarli. Che si tratti di un’avventura stimolante o di un contatto schifoso, di un incontro alla pari o di un contratto prostituto è soltanto la durata a differenziarli uno dall’altro. Quando la sequela si conclude, la ragazza è avvolta dai jeans piovutile addosso: una sorta di Addolorata senza Cristo. E Cristo, – e Dio – percorre a tratti, nominato o sottinteso, lo sviluppo della Danza di Morte (e di Vita) che si sdipana davanti alla gente. Gente, non pubblico, perché se è vero che si tratta di uno spettacolo, e che Stefano Ricci e Gianni Forte lavorano con professionalità teatrale sia all’estrinsecazione dell’idea che all’addestramento dei giovani attori – raccolti dopo scrupolosi tirocinii in vari luoghi del mondo nel corso delle tournées –, la valenza dell’incontro coinvolge chi vi assiste in una riflessione che dall’interpretazione di quanto avviene in scena può risalire al proprio vissuto e alle proprie analoghe sensibilità. Non psicodramma, ma situazioni in cui il comune potenziale di mimesi comporta – costianamente – l’immedesimazione.

I ragazzi corrono ad addossarsi al muro di fondo. Dietro di loro una lavagna segnata di numeri. Partono uno dopo l’altro in avanti, come per una gara, a buttar fuori un ricordo, un’esperienza vissuta, siano anni, decenni o giorni,  situazioni esistenziali di massima emozionalità o episodi dall’apparenza insignificante, ma quanto determinanti per chi li ha vissuti rimanendone segnato per tutta la vita. Corrono avanti tirando fuori a perdifiato il loro racconto, spudoratamente, come forse davanti allo psicanalista – o al confessore? -; poi tornando alla lavagna vi segneranno con il gesso l’esperienza, ridotta all’altezza della loro statura all’epoca del fatto. Quantificazioni numeriche celano quindi l’emozione e la comprimono in sofferenza. E’ forse questa la morte di cui parla il titolo? E non è al contempo aspirazione sofferta di vita, frustrata nella sua intrinseca essenza, reificata e quindi protesa alla morte? Inutile fare domande, l’impatto è forte nel suo manifestarsi.

Indifesa nel suo apparire lacrimevole, al centro della scena una ragazza con un microfono davanti a sé e un altro in mano, si interroga  con palese pretesa di sollecitare risposte.  Guarda davanti a sé, dove nel buio gli spettatori ascoltano silenziosi; ma di lato, attenti, ci sono i suoi compagni. Domanda – e si domanda – il perché di certi suoi comportamenti: il padre, la madre, gli amici convergono in questa sorta di interrogativo multiplo che fa soffrire la ragazza, che rende pubbliche situazioni rimaste sospese, chiamando a soccorso chi può darle una spiegazione. Dal gruppo, a turno, le si avvicinano i compagni con risposte consolatorie. Ognuno le si inginocchia accanto  parlandole al microfono con tono affettuoso; intanto con un pennarello andrà percorrendone le membra e il viso di righe nere:  il gesto porta a farne affiorare lo scheletro e il teschio. Il contatto con l’altro che avrebbe dovuto portare a un effetto consolatorio raffigura la morte: quale il senso segreto? Certo la scena agghiaccia. E quella frase – pur quasi sottovoce pronunciata a un tratto, non so quando – “Mio Dio, perché mi hai abbandonato?” – risuona nello spettacolo più forte di una lunga litania.

 

Alcune scene richiamano i temi cari ai due autori, parte del loro universo espressivo nella partecipazione alla sofferenza del mondo e di quello giovanile in particolare avvolgendola di una figuratività che attinge al fumetto, ai personaggini dei giornalini per ragazzi di qualche decdennio fa.  L’amore ribaltato/ricambiato con la tortura era una delle scene di intollerabile emozione in “Macadamia Nut Brittle”. In una sequenza di “Emotionofdeath” l’accanimento si moltiplica per quante coppie animano l’opera, e la reificazione del rapporto è messo in atto da entrambi i partners, mascherati da pellerosse, eroi dei western o damine del Settecento. Privati anche del residuo di stoffa che li copre, tenendo appena calati esigui indumenti ad accentuare lo squallore di una nudità rubata all’intimità con intento denigratorio, ognuno manipola il sesso dell’altro ricavandone una farsa erotica destinata a svilire. Il pene stirato, il capezzolo pizzicato, la vagina frugata costituiscono un campionario di umilianti immagini ossessive nella sterile fissità delle espressioni dei volti celati dalla maschere di ogni coppia. E il mascheramento è cifra emblematica dell’animo. Finché uno dei due, esausto, cade a terra di schianto. Da qui partirà un altro momento, fino alla conclusione, che ricorda, in una illusoria quanto invocata volontà di favolistica consolazione infantile, quella di “Macadamia” con le minuscole capanne illuminate, dove gli effimeri eroi di Walt Disney cullavano i sogni dei ragazzi che vi si rifugiavano dopo tanto penare fra i mostri dell’esistenza reale.

Qui ogni ragazzo porta in scena un fagotto, borsa, scatola, zainetto, che andrà aprendo accostandoglisi a terra ed esaminandone il contenuto. C’è che ne trae una cascata di pezzetti colorati che va rovesciandosi sul capo, e così immerso in quel suo vissuto vi si crogiolerà immemore. Chi sfoglierà pagine e pagine, forse indagando diaristicamente sulla propria vita, e intorno a lui i fogli faranno da scudo – o barriera? -, mentre altri ragazzi si attaccheranno ad altrettanti elementi capaci di evocarne momenti di esistenza: piccole cose d’infanzia, quasi sempre, dolorosamente o forse gioiosamente vissute, a cui ripensare con la melanconia di un impossibile ritorno.

 

Più che in spettacoli precedenti, in cui immagini per sovrapposizione di elementi figurativi contribuivano alla rappresentazione, qui sono i corpi a farsi agile strumento di rappresentazione. Certi momenti, sia all’inizio che nelle sequenze di corpi intrecciati, echeggiano invenzioni del Living Theatre, specie dell’”Antigone”, di cui non si può dimenticare la crudeltà scandita dallo schioccare delle dita durante il processo alla ragazza. E di “Mysteries”, nel silenzioso torcersi dei corpi abbandonati fra i corridoi delle poltrone del teatro, mentre piccole luci andavano illuminando a tratti i volti tesi degli spettatori. Ma lo scopo era una provocazione all’indifferenza della gente rispetto alla guerra, un tentativo di scuotere dalla passività capitalistica chi andava ad assistere ai loro spettacoli, costituendo con il pubblico una sorta di legame politico, di sollecitazione ad intervenire. Anche qui alcuni ragazzi intervengono sulla gente, ma scattanti e vivaci a interrogarla su che cosa va pensando la signora, il ragazzo, il signore seduti qua e là. In tempi in cui, almeno all’apparenza, non emerge una tragedia, è più difficile creare collegamenti per azioni che superando il palcoscenico diventano politiche. La nostra tragedia è più soft, più strisciante e quindi meno evidente. Il mescolarsi di chi recita con chi assiste produce sempre un effetto di tensione, imbarazzo, stupore; ormai l’effetto risulta diluito dalle infinite trasmissioni televisive che se ne servono. Bene hanno fatto Ricci e Forte a immaginare che cosa direbbe questo e quello, evitando il realismo della risposta, ma inventandola loro; tutto allora si ammanta di ironia, attraverso una esemplificazione ironicamente campionaria.

 

Morte, gioventù, allegria, illusione, melanconia si intrecciano nella durata da tragedia classica – poco più di un’ora – dello spettacolo, complesso e compatto. Più che da un’emozione di morte si viene presi da un gioco liberatorio di un impegno solidale, senza falsi buonismi. A vivere, forse, agendo con coraggio. Un bel tratto espressivo, che rischia tuttavia di concludersi in se stesso, svanendo quando questi giovani torneranno ad altri impegni. Ma la parola volteggia nell’aria come la primavera del Petrarca, lo spettacolo è generosamente sacrificale.