LA PAROLA PADRE

 

IL NOME DEL PADRE IMG_2404scenofonia e allestimento Roberto Tarasco

coordinamento artistico Salvatore Tramacese

con

Irina Andreeva, Alessandra Crocco, Aleksandra Bronowska, Anna Chiara Ingrosso, Maria Rosaria Ponzetta,  Simona Spirovska

Uno spettacolo di Koreja

Roma, Teatro Eliseo, 30 marzo 2016

 

Maricla Boggio

Quello che ci appare in scena in circa un’ora e mezza di intense azioni è il frutto di un lungo lavoro che Gabriele Vacis ha intrapreso attraverso la struttura di Koreja nell’Europa Centro-orientale.

A raccontare le loro storie sono sei giovani attrici selezionate attraverso questo lavoro di indagine introspettiva realizzato in un periodo di tempo vasto e articolato. Queste ragazze – una bulgara, una macedone, una polacca e tre italiane –  emergono a rappresentare le storie di tante altre che sono state incontrate nel corso della  ricerca. Lo stesso Vacis parla di lunghe interviste, riprese in video, ma – afferma “ più che interviste sono sedute psicanalitiche”.

E infatti la forza che si sprigiona dalle scene che via via animano lo spettacolo ha qualcosa di assoluto, che ogni volta si riproduce con la stessa volontà di indagare, di capire, di vivere quanto dichiarato, che non è del teatro – che è metafora, che è simbolo -, ma è dell’esistenza e della sua sofferta capacità di lasciare ferite vere, nell’animo di chi ha vissuto un certo periodo critico della nostra storia recente.

Ci ha colpito il nome di Koreja, che appartiene a questo cantiere leccese, perché in greco esso significa “verginità”, e di queste ragazze colpisce la genuinità dell’espressione, la freschezza disillusa di esistenze che hanno patito momenti privati e pubblici di grande difficoltà.

Certo la parola “padre” appare fin dal titolo. E ognuna di queste ragazze ha un padre a cui chiedere ragione del suo comportamento, ad avvertirne la mancanza di vicinanza come lo struggente desiderio di riaverlo accanto trovandolo sempre giovane, una sorta di idolo a cui fare riferimento nei momenti difficili. Ognuna con modalità diverse, ma con analoga necessità.

Le situazioni delle ragazze si diversificano invece quando quella radice di “padre” la si riferisce a “patria”. Ognuna delle ragazze ha fatto esperienze diverse nella propria patria, e il periodo del comunismo si affaccia in intensità deleteria soprattutto nelle storie della ragazza polacca e di quella bulgara, dove povertà e repressione appaiono spettri che hanno ancora il potere di intimorire. Ma gli spettri sono tanti, il ricordo delle amicizie con i popoli delle diverse etnie si affaccia nei ricordi in cui c’era Tito, in quella sorta di comunismo diversificato da quello dell’Urss. E la ragazza macedone che sente l’orgoglio di essere una discendente di Alessandro Magno non può non sentire il contrasto con altri popoli vicini di casa a cui tale orgoglio è negato.

Storie, esperienze e drammi si alternano mentre in scena centinaia di bottiglioni dell’acqua, di quelli che sono a portata di mano degli impiegati nelle varie aziende – un richiamo al consumismo tramutato in materiale espressivo? -, si assiepano di volta in volta come muri o difese tra le ragazze che vi cadono dentro, vi sguazzano in cascate d’acqua, vi si trascinano pericolosamente innalzandovisi sopra, in una fantasia che da una Venezia immaginata si fa muro e barriera e rovina.

C’è da doversi immedesimare in questa violenza disperata che è anche troppo vera e ha dei vantaggi espressivi, ma anche dei limiti teatrali nella ripetitività esasperata che porta lo spettatore a sentirsi escluso da una reale partecipazione, confinato ad assistere a  uno psicodramma di una sofferenza pur degna di rispetto.

Ma il teatro, in definitiva, può essere anche questa offerta di sé, purché non arrivi a far davvero soffrire chi lo fa.