LA SCORTECATA

I Scortecata

liberamente tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile

testo e regia Emma Dante

con Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola

elementi scenici e costumi Emma Dante

luci Cristian Zucaro

Produzione Festival di Spoleto 60, Teatro Biondo di Palermo

in collaborazione con Atto Unico, Compagnia Sud Costa Occidentale

Roma, Teatro India, 7 novembre 2018

Maricla Boggio

La novella – o fiaba perché il clima in Basile era quello – è rappresentata nella elaborazione di Emma Dante – passando dalla narrazione in terza persona a una suddivisione teatrale in due personaggi che si alternano per tutta la vicenda. E mentre nell’originale i personaggi sono due vecchie decrepite, e poi il Re e tutta la sua corte, qui in scena si fronteggiano, si alternano, si litigano e si aiutano due esseri più vicini alla mascolinità degradata dalla vecchiezza e dai malanni, eppure rapiti nello loro ignoranza dall’illusione di diventare femmine desiderate da questa entità regale di cui forse da bambini hanno sentito narrare quando ancora davvero si credeva nelle magie delle fate e nell’esistenza dei re.

Attraverso questa scelta iniziale, tutto lo svolgimento si articola in forme non più di favola delicata nella scrittura del Basile, che, letta con l’aiuto della splendida traduzione in italiano di Roberto De Simone, si comprende in tutta la sua immaginifica bellezza.

Il mondo preferito da Emma Dante è quello di una degradazione di rado tendente al positivo, al bello, all’amoroso. E se accade, allora risalta davvero. Il linguaggio stretto nel dialetto antico propenso a una discesa verso manifestazioni corporee umilianti costituiscono il linguaggio di fondo dei due esseri che rappresentano la storia. A cominciare da quel succhiarsi il mignolo per farlo diventare lustro – lo mostreranno al Re che sentendone un canto affascinante vuol conoscere la bella di persona: operazione divenuta ossessiva, a suggerire un succhiare sessuale.

Poi però lo svolgimento si compie mettendo in moto la fantasia, quel fare tutto con niente che Peter Brook cita pensando alla sedia in scena anziché a scenografie realisticamente costruite, in un’invenzione dettata dalla fantasia personale.

Si alternano, i due brutti, infagottati in lacere maglie femminili, in calze sdrucite e mutande rimboccate, facendo di volta in volta – basta mettersi un rotolo di carta bianca in testa e sei il Re – la bella pudica che si nasconde mostrando soltanto il dito dalla serratura di una porta che va e viene di qua e di là oppure il sovrano smanioso.

Il gioco trucido si fa infantile e delicato, fino alla notte in cui, sotto un ampio lenzuolo, i due si ritrovano in un amplesso infinito, dopo il quale, alla scoperta della bruttezza della vecchia scambiata per giovane e bellissima, il Re non la sbatte fuori lasciandola appesa a un ramo. Niente di reale, ma solo le parole a immaginare la scena, fino all’arrivo della fata – sempre l’altra interprete – per cui la vecchia scacciata dal Re diventa magicamente splendida. È il momento in cui la Dante si concede un attimo di respiro dalla sua cifra.

Uno dei due con parrucca rossa e ampio mantello – starà sempre di schiena perché la magia lasci indovinare la bellezza – viene adorata dall’altro che, con indosso un’inquartata, in ginocchio completa il tableau vivant mentre antiche canzoni napoletane accarezzano l’udito rievocando tempi andati, in cui le favole venivano raccontate e credute dai bambini. Qui la Dante gioca a un momento di tregua, in un silenzio animato dalla musica.

Nella trucida narrazione, l’altra vecchia vuole anche lei godere di quanto ha acquisito la sorella; dietro il malvagio suggerimento di lei – che si scortichi della pelle sgraziata – vorrebbe andare dal barbiere, farsi strappare la pelle tutta grinze e saltar fuori giovane, illusione che nel racconto basiliano le costerò la vita – non è vero che  tutte le favole per bambini finiscono bene, chi l’ha detto? -, ma per sua colpa. Qui la Dante innesta una sua trovata: è l’altro ridiventato vecchio e maschio, a giustiziare il compagno trattenendolo con una mano e incombendo su di lui con un lungo luccicante coltello, giustiziere a tirar fuori finalmente un odio covato da tempo nei confronti di un alter ego. E qui ci si potrebbe vedere un richiamo a “Les bonnes” di Genet, all’odio reciproco delle due sorelle cameriere della Signora, che non potendo uccidere la padrona scaricano su di sé la loro impotente violenza.