LA VITA CHE TI DIEDI


di Luigi Pirandello
con
Patrizia Milani, Carlo Simoni, Irene Villa, Giovanna Rossi, Gianna Coletti, Karoline Comarella, Paolo Grossi, Sandra Mangini, Riccardo Zini
scene Gisbert Jaekel, costumi Roberto Banci, suoni Franco Maurina, luci Massimo Polo
regia di Marco Bernardi
Teatro Stabile di Bolzano
Roma, Teatro Quirino, 9 dicembre 2014
Maricla Boggio

Sono passati più di novant’anni dalla prima rappresentazione de “La vita che ti diedi” che ebbe protagonista Ala Borelli, mentre non potè interpretarla Eleonora Duse, per la quale Pirandello l’aveva scritta, forse per qualche remora della Grande circa i valori morali espressi nel dramnma. Marco Bernardi presenta questo testo problematico a chiudere la sua lunga esperienza con il Teatro Stabile di Bolzano, da lui diretto per trentacinque anni con chiara capacità di scelte tradizionali e innovative, finalizzate sempre a offrire al pubblico spettacoli in cui si delineasse un invito alla riflessione, all’introspezione, al giudizio morale e/o politico, senza trascurare il lato comico e perfino grottesco nella scelta dei testi. Una coerenza rara, non disgiunta dalla volontà di sviluppare un discorso di nuova drammaturgia, insieme a una volontà di dimostrare che il teatro si può fare senza sprechi e con una compagnia affiatata e stabile. Detto ciò, che almeno tanto si doveva a Bernardi nella sua dimensione di direttore, va affrontato il discorso registico da lui elaborato. Un discorso tenuto sul filo del rasoio di una aderenza fedele agli intenti pirandelliani, insieme a una volontà di mostrare dell’assunto i limiti di un’epoca e di una morale più moralistica che davvero profonda, dove tuttavia si insinua una dimensione liberata dalle pastoie di una concezione borghese dell’esistenza.
Donn’Anna Luna si rifiuta di accettare la morte del figlio, tornato dopo sette anni di silenzio; appena ritrovatolo, due giorni dopo il suo arrivo, muore misteriosamente. Patrizia Milani si è calata nel personaggio con una sorta di autointrospezione, dove le frasi talvolta assai complesse nell’intento tendente a una ricerca psicoanalitica sono state liberate dalla capacità dell’attrice di immettervi il calore di un’umanità sofferta e purificata. Del resto lo stesso Pirandello riteneva di aver toccato in questa scrittura l’apice di una altezza espressiva affrancata dal rovello razionale. La teorizzazione del desiderio di superamento-ignoranza della morte permea tutta la prima parte dell’opera, dove la lucide follia di Anna si alterna all’umanissima partecipazione dolorosa della sorella Fiorina – una Gianna Coletti di emozionale sensibilità – e alla illuminata e paziente forma consolatoria del parroco – Carlo Simoni qui immedesimato in una figura per lui insolita, con notevoli capacità mimetiche – . E’ poi l’arrivo dell’amante del figlio scomparso a mutare l’azione verso un registro di convulse passioni, tanto più forti quanto più a lungo represse – i due si erano amati per tre anni senza sfiorarsi, ed è ben difficile pronunciare tali confessioni così lontane dall’oggi -. La rivelazione di una prossima nascita muta la situazione e i comportamenti: di fronte alla giovane futura madre di un figlio che le riporta alla vita il figlio scomparso, donna Anna si scioglie dalla ostinata determinazione di non credere alla morte della sua creatura e accoglie come sua la creatura dell’altra. Irene Villa dà credibilità alla sua Lucia nella difficile interpretazione in bilico fra ritegno borghese e liberatoria accettazione di una vita concepita per amore. Tutto sembrerebbe avviarsi a un finale non dico felice ma senz’altro consolato. Ma la chiamata del rispetto delle convenienze – Lucia è sposata e ha due bambini -, che sua madre – Giovanna Rossi con il piglio dovuto al suo personaggio rappresentante della morale tradizionale più che dell’affetto materno -, annullano in sostanza l’afflato intravisto, di un nuovo modo di intendere sentimenti e comportamenti. E’ troppo presto per affermare il diritto all’amore e all’autodeterminazione femminile. Il finale è un triste accondiscendere alle eisgenze di proseguire a vivere secondo i criteri “vigenti”.
Non era facile tenere in piedi un dramma così radicato in una morale superata. La strada della distanziazione attraverso una recitazione che oso dire epica anche se legata ai canoni di una mozione di sentimenti ha ottenuto il risultato di offrire uno spettacolo fedele al testo, al tempo stesso prendendone le distanze, “dimostrandolo”.
Bella, ariosa la scena di Gisbet Jaekel, percorsa a tratti da leggere folate di vento, quasi a suggerire presenze misteriose. Bene i costumi, di Roberto Banci, datati com’era giusto, a indicare – specie nei due giovani, Karoline Comarella e Paolo Grossi, volutamente sopra le righe come figli educati in città – un’epoca e uno stile di vita. Una lunga tournée, molte critiche positive, e poi il saluto di Marco Bernardi al Teatro Stabile che può ben dirsi suo. Aspettiamo da lui uno sviluppo che non potrà non esserci, nonostante le difrficoltà dei tempi.