L’ESPOSIZIONE UNIVERSALE

di Luigi Squarzina
regia e impianto scenico di Piero Maccarinelli
con Luigi Diberti, Stefano Santospago
Antonietta Bello, Sara Pallini, Alice Spisa
e gli attori del corso di perfezionamento per attori della Scuola del Teatro di Roma
costumi di Gianluca Sbicca
musiche di Antonio Di Pofi
movimenti scenici di Francesco Manetti
immagini Istituto Luce scelte da Roland Sejko
Roma, Teatro India, 9 giugno 2015
Maricla Boggio

A conclusione della mia testimonianza nell’ambito del Convegno su “Luigi Squarzina, studioso, drammaturgo e regista teatrale” , a Venezia, nel 2013, dissi che:

“Non è un caso che forse il suo testo più emblematico e anticipatore dei tempi, di grandioso respiro storico, non sia mai andato in scena in Italia. Ne parla Vito Pandolfi in una presentazione alla prima pubblicazione dell’opera, Roma, 1950, edizioni Vittorini, a cura di Luciano Lucignani. Pandolfi si rincresce che “L’esposizione universale”, scritta fra il 1943 e il 1948, abbia avuto soltanto una rappresentazione a Katovice, in Polonia, nel 1955. Ci sono tempi lunghi per cose che hanno un sapore nuovo, fa capire Pandolfi che in più occasioni afferma che i drammi più belli e interessanti sono spesso quelli che non sono mai andati in scena e che tutto l’andamento del teatro italiano sarebbe stato diverso se fossero stati rappresentati altri testi anziché quelli scelti dalle compagnie. Vincitore del premio Gramsci – e non a caso i documenti teatrali di Squarzina sono andati alla Fondazione – questo testo attende ancora oggi di essere fatto conoscere al pubblico.

Si tratta di un’opera molto articolata, in cui ogni elemento contribuisce a una visione corale pur mantenendo l’autonomia dei singoli. L’azione si svolge nell’estate del 1946, e avviene – dice la didascalia – fuori Roma, in località Tre fontane, all’E. 42. Da quel tempo innumerevoli cambiamenti sono avvenuti nella zona dell’EUR, cementificazioni, destinazioni diverse rispetto alle primitive… Allora quelle gigantesche costruzioni di marmo bianco non finite, isolate nelle campagne popolate da pastori con i loro greggi offrono già una visione grandiosa, da tragedia greca, in cui si svolgerà il dramma. Visione terribile perché, a ridosso di quelle mura enormi, vive in estrema miseria un complesso di umanità di sfollati emergente dalla guerra, dalle deportazioni, dalle lotte fratricide di opposte ideologie. E comincia a ricrearsi la categoria dei nuovi profittatori, delle nuove povertà, dei nuovi sacrificati…
Lascio alla curiosità di chi ascolta la lettura di questo testo e forse a qualche regista e direttore di teatro la determinazione di metterlo finalmente in scena. Con il tempo – io sostengo – “L’esposizione universale” ha acquistato un sapore di arcaicità classica, uno spessore di anticipazione al dramma che dopo illusorie speranze coinvolge ineluttabilmente un popolo.
Scrive Vito Pandolfi:
“Intanto, con la lettura del lavoro di Squarzina, già si può adempiere, sia pure in parte, a questo compito; che questa lettura sia largamente positiva basta a certificare quanto ha detto a proposito del lavoro la Commissione giudicatrice del Premio Gramsci: ‘Una singolare suggestione artistica sorretta da indubbie capacità teatrali e da un vigoroso e acuto atteggiamento verso la realtà sociale dell’Italia d’oggi’ “.
Firmato: Orazio Costa, Eduardo De Filippo, Stefano Landi, Vito Pandolfi, Paolo Stoppa, Luchino Visconti.”.

Ora questa andata in scena è stata realizzata da Piero Maccarinelli per il Teatro di Roma in un progetto che ha coinvolto, oltre ad attori professionisti, anche il corso di perfezionamento per attori della scuola del Teatro di Roma. Maccarinelli, che conosceva il testo nell’edizione Bulzoni realizzata, sulle opere di Squarzina, dalla SIAD – Società Italiana Autori drammatici, ne aveva già presentato una lettura nel 1994. La complessità di uno spettacolo come quello che discendeva dal testo non aveva permesso fino ad oggi di vederlo davvero in scena. La lunghezza dell’opera, l’elevato numero dei personaggi, la necessità di individuare un impianto scenico al tempo stesso agile e descrittivamente efficace hanno portato soltanto oggi alla sua realizzazione. Che, va detto subito, è di forte efficacia nei contenuti e di indiscutibile presa emozionale. L’accumulo di episodi nella urgente volontà di rendere la molteplicità di una situazione storica nel suo presente con uno sguardo al passato pur sempre incancellato, di personaggi simbolo ciascuno di una realtà sociale, politica, esistenziale nel suo affacciarsi a una nuova era dopo la lunga vicenda del fascismo e della guerra, tutto ciò non ha indotto Maccarinelli a operazioni riduttive, che forse il suo Autore, maturato negli anni dopo questo exploit poco più che adolescenziale, avrebbe fatto: il regista ha scelto la strada della testimonianza completa, del panorama storico di ampio respiro in cui dare spazio ad ogni vicenda, nell’arco del pubblico e del privato e nel loro intrecciarsi talvolta inevitabilmente contraddittorio. Da tale scrupolosa decisione emerge anche una dimensione che supera le eventuali riserve drammaturgiche, ed è quella che, a distanza di circa settant’anni dalla sua stesura, assume nel suo significato intrinseco di affresco valido in ogni tempo pur nelle necessarie scelte narrativo-stilistiche. Se “L’esposizione universale” fosse stata rappresentata quando venne scritta, sarebbe andata a scontrarsi con una interpretazione di tipo accusatorio, polemica nella denuncia di mali ancora alle loro prime avvisaglie: corruzione e abusivismo da un lato, connivenze statali, specie nell’ambito delle forze dell’ordine dall’altra, in un impasto pericoloso quanto veritiero: quale censura avrebbe permesso una tale rappresentazione? Oggi la loro rappresentazione assume valore emblematico, direi brechtiano, e su questa linea espressiva si fonda la regia di Maccarinelli, che si avvale anche, per tale linguaggio, dell’impianto scenico da lui ridotto all’essenziale, mobile e arricchito sobriamente da immagini in bianco e nero dell’ampia architettura non fintia dell’E42, aggiungendo a ciò l’inserimento, a modulo di stacco drammaturgico, di canzoni d’epoca quasi sussurrate coralmente, quasi a suggerire e a ricordare, curate da Antonio Di Pofi.
Certo, non si può evitare di riflettere che un testo vale anche per la sua irruenza nel momento storico in cui viene scritto; che sia attuale anche oggi non toglie che esso sia stato penalizzato proprio da quanto intendeva affermare, la denuncia hic et nunc, di mali destinati ad ingigantirsi se non fermati in tempo. Oggi nel nostro panorama drammaturgico affiorano testi che tendono alla denuncia di situazioni attuali; sono quasi sempre di altri Paesi, e da noi vengono rappresentati senza suscitare quei problemi che un testo di denuncia di mali nostrani potrebbe porre in atto: allo stato attuale non abbiamo più “quella” censura, ma una sorta di autolimitazione dei nostri autori, che sanno di non poter contare sulla rappresentazione di un dramma che si addentri nella nostra realtà. Bene invece, e senza impegno, la Lehman trilogy, o il processo a Nixon, sono fatti che ci riguardano da lontano. Questo E42 ci appartiene un po’ di più, perché mette in scena le radici di mali che ancora oggi sono presenti da noi.

Il gruppo dei 19 attori impegnati con Piero Maccarinelli ha dato una prova superba di tenuta e omogeneità, mantenendo le differenze linguistiche e sociali di cui erano rappresentanti, dai popolani romani ai venuti da lontano, ai piccoli intellettuali sognatori, fino a quelli in cui già si adombra un segretario di partito, o un leader destinato a cedere al denaro rispetto agli ideali. Splendide le donne – Antonietta Bello, Sara Pallini e Alice Spisa, in cui più si evidenzia una generosità d’animo prefemminista. Spiccano per i loro ruoli sui quali ruota la vicenda Luigi Diberti che impersona Curbastro, l’illuso fascista in buona fede e Stefano Santospago, Barzilai finto scrittore e giornalista portatore di progetti in cui arricchirsi ai danni della povera gente con l’autorizzazione della pubbliche autorità, a cui va aggiunto Alessandro Meringolo che interpreta con la giusta rigidezza il corrotto brigadiere Tamburini.
E gli spettatori, nonostante il caldo soffocante dell’India e le circa due ore e mezza di spettacolo, sono anche loro in scena, idealmente, e partecipano a una storia di cui si sentono partecipi.