traduzione di Umberto Albini
regia di Luca Ronconi
ripresa da Daniele Salvo
interpretata da
Franco Branciaroli
scene di Francesco Calcagnini
riprese da Antonella Conte
costumi di Jacques Reynaud
ripresi da Gianluca Sbicca
luci di Sergio Rossi
riprese da Cesare Agoni
con
Alfonso Veneroso -Giasone
Creonte – Antonio Zanoletti
Pedagogo Nunzio – Tommaso Cardarelli
Nutrice – Elena Greco Polic
Egeo – Livio Remuzzi
Donne di Corinto:
Francesca Mària, Serena Mattace Raso,
Odette Piscicelli, Elena Polic Greco,
Alessandra Salamida, Elisabetta Scarano, Arianna Di Stefano
Figli di Medea
Matteo Bisegna, Raffaele Bisegna
Roma, Teatro Quirino, 24 ottobre 2017
Maricla Boggio
Sono passati vent’anni dal debutto di “Medea” impersonata da Franco Branciaroli, in un progetto che Luca Ronconi condivise con un’idea vagheggiata dall’attore, di esser lui a fare quella donna, mito anomalo scritto da Euripide attingendo a varie fonti, e inventando l’uccisione dei figli da parte della madre, come bene riporta Carlo Diano in una nota a una sua traduzione. Ma nello spettacolo la nitida traduzione è di Umberto Albini.
Daniele Salvo, che di quel debutto fu presenza attiva affiancando il Maestro, con fedeltà estrema oggi riprende lo spettacolo, accantonando ogni personale visione, ma mettendo a frutto la sua particolare sensibilità artistica e operando un difficile omaggio alle molte forme espressive che segnarono la personalità di Ronconi: la spezzatura del dire, riducendo in meditati brani ogni pur passionale momento; il rifuggire ogni sentimento realistico, privilegiando la razionalità; la volontà di portare all’oggi personaggi di quella Grecia arcaica, come le donne del Coro, povere impiegate di un’impresa delle pulizie alle prese con aspirapolvere; la predilezione per ogni complessa soluzione scenica, che qui si concretizza in una lunga scala antincendio laterale, e nel marchingegno per innalzare in cielo una Medea appagata di vendetta, con accanto in una tinozza insanguinata i corpi dei figli assassinati. ( E questi figlietti, con allegro gioco da teatro, li vedremo poi vivi ai lati della madre). E ancora, il lungo lamento anticipatore della Nutrice – Elena Greco Polic efficace nel canto iniziale suscitatore di imminenti sciagure e presenza autorevole, poi, a guida delle donne del Coro. E la presenza intransigente di un Creonte – Antonio Zanoletti – che pare allontanatosi un momento dalla “Lehman brothers” di ronconiana memoria. E la foga che non ammette condizioni di un Giasone – Alfonso Veneroso – che al sesso contrappone il calcolo. E la gioventù dalla barba canuta di un Egeo pellegrino – Livio Remuzzi – dal candido seguito itinerante… Queste ed altre innumerevoli, le notazioni a uno spettacolo che esiste come tale, a prescindere dal significato intrinseco del testo, per la tenace capacità di riproporlo dimostrata da Branciaroli coadiuvato da Daniele Salvo.
Motivazioni apportate dall’attore circa la sua interpretazione, a riprendere la tradizione antica che vuole le parti femminili realizzate da uomini, hanno relativamente a che vedere con la volontà tutta attorale di Branciaroli, che in quella parte esprime, in sintonia con Luca Ronconi, una tesi, forse, a dimostrazione che la donna, in quanto essere diverso, ha una sua forza a contrasto con la visione del mondo di un uomo, possiede una sua passionalità che si intreccia con una ragione profonda, che la rende lucida e spietata quando sente di essere stata trascurata, soprattutto nella sua unicità di portatrice di vita, a derivazione diretta con la divinità.
Ed è determinante l’ostinata determinazione a essere “un uomo che recita una parte femminile” e a rendersi, come scrive Ronconi in una sua nota di regia, “un minaccia che incombe imminente anche sul pubblico”.
Nella vivisezione operata su ogni battuta da Ronconi nel suo stile che indaga ogni minimo significato destituendolo dal sentimento, la tragedia si rivolta a tratti in ironia, a momenti si fa filosofico indagare, descrizione a contrasto del reale svolgimento dei fatti, su piani differenti nell’immenso sviluppo dell’azione.
Per lo spettatore è un lungo percorso di frammenti, un continuo interrogarsi affiancando la difficile conduzione che Branciaroli fa del personaggio, portandolo via via a registri differenti, dalla meditata volontà, rivelata alle donne, di vendicarsi dell’affronto subito che con violenza scarica su Giasone, mutando poi in sottile seduzione il rapporto con lui mentre sbuccia come una qualunque casalinga le patate per il desco familiare: esercizi di stile, che culminano poi nel racconto del Nunzio – Tommaso Cardarelli – nel raccontare alla soddisfatta Medea la morte dell’odiata rivale, mentre dal suo modo di esporre il tragico evento sembra condividere la gioia maligna della donna. Queste ed altre potrebbero essere le considerazioni rispetto a un’operazione che per la serietà profonda del pensiero che l’ha ideata non deve essere oggetto di critica, ma di rispettoso omaggio a Ronconi.
Non posso tuttavia dimenticare, senza voler porre alcun confronto, una Medea rappresentata a Siracusa, con la regia di Franco Enriquez, nel 1972. Valeria Moriconi trascinava in sintonia con la sua storia il pubblico immenso che con lei riviveva gli eventi di ingiustizia, di morte e di vendetta di una semplice donna straniera donna. Come a volte avviene oggi, nella realtà dei nostri giorni tragici.