NEMICI COME PRIMA


di Gianni Clementi, regia di Ennio Coltorti
con Ennio Coltorti, Pietro De Silva, Adriana Ortolani Giulia Ricciardi
scene di Alessandro chiti, costumi di di Logos
Roma, Teatro de’ Servi, 6 – 25 marzo 2012

Maricla Boggio

“Nemici come prima” conferma in Gianni Clementi una precisa volontà di racconto della società attuale, partendo da un microcosmo all’apparenza bonario, tratto da quel genere romanesco che popola le filodrammatiche amatoriali di livello artigianale e ministeriale oscillante fra popolo e piccola borghesia di una Roma disincantata ma profondamente legata ai valori della famiglia e, insomma, “de core”. Il bello sta proprio in questa illusoria vernice di sentimenti solidali, che appena appena si scrosta lascia intravvedere – o esplodere – una ben diversa connotazione carica di egoismi e volontà di prevaricazione talvolta contenuti e rientranti in un comportamento “civile”, ma qualche volta portati all’estremo, cioè addirittura all’omicidio. Emergono, queste gradualità di comportamento che al fondo rivelano una sorta di malvagità insita nell’animo umano, in parecchi dei suoi testi. Ne “Il cappello di carta” i toni sono sfumati nella rimembranza di un tempo di guerra portatore di valori antichi, familistici, e soltanto un poco di meschino egoismo – o di egoistico modo di sopravvivere – si intravvede in mezzo ai buoni sentimenti. Ne “L’ebreo” i toni si fanno ben più crudeli, nella coppia inizialmente soccorrevole che raccoglie a custodia i beni dell’ebreo deportato, ma al momento di restituirli – non si aspettavano certo di rivederlo vivo e invece lui ritorna – architettano di ucciderlo; ma il marchingegno si rivolta contro di loro e al posto dell’ebreo muore la loro figlia. “In “Ma che bella ikea!” i toni si stemperano in un divertente scambio di coppie, i cui due appartamenti – uno sotto l’altro in un casermone che rende già indistinte entrate e stanze – si confondono per l’arredamento acquistato al famoso grande magazzino; ma si confonderanno, e qui sta l’occhio critico di Clementi – anche i componenti delle coppie. Tanti ancora sono i testi che l’autore in un breve arco di stagioni ha composto e visti in scena da parte di compagnie che vi trovano materia di riso ed anche, senza troppo calcare la mano, un giudizio morale che consenta allo spettatore, a spettacolo finito, una possibilità di riflessione sull’oggi e la sua gente. Cito ancora, confidando nella memoria, “Il centurione” e “Sugo finto”, dei tanti testi che emergono da un popolino che ancora si distingue rispetto ad altre città.
Questo, ora in scena ed ultimo, a quanto sappiamo, della scrittura clementiana, “Nemici come prima” individua prima di tutto un mestiere – quello del macellaio – che consente a chi lo pratica con esperienza di arricchirsi. Su questa prima scelta l’autore inserisce alcuni archetipi: il genero che lavora come un mulo perché deve guadagnarsi il posto di marito della figlia del ricco patriarca, e per ripicco di tanta fatica si prende i suoi svaghi, cornificandola; la figlia è rozza e un po’ sciocca, per questo ha accettato un marito povero, ma è consapevole della sua ricchezza e sa anche comandare; la figlia illeggittima è bella e a suo modo intelligente, anche se viziata – ” il molieriano Le bourgeois gentilomme” è senz’altro una citazione del personaggio – da una ricchezza che il vecchio macellaio non le lesina essendo la sua preferita; lei si picca di cultura, di viaggi spirituali, di vegetarianesimo per apparire “diversa”, una vera intellettuale dai parenti che schifa. Luogo deputato – a sostituire l’antica piazza rinascimentale o la locanda dove incontri e avvenimenti popolano il teatro per secoli, prima di entrare dentro le case – un atrio di attesa di ospedale davanti alla Terapia intensiva: è lì che è stato portato d’urgenza il vecchio patriarca, per un infarto forse mortale. Ad introdurre nel clima di piccoli profitti, meschini guadagni e miserevoli e umanissime rivalse è un infermiere, figura alla prima impressione trascurabile, ma poi decisamente deus ex machina dell’intero dramma che da farsa iniziata come godibile intrigo casareccio assume toni infernali. Perché fra i componenti della famiglia emerge lo spasmodico desiderio di ereditare, che cancella ogni pudore, falso rigore esistenziale, finto attaccamento maritale. Spuntata la badante rumena, che se la fa col vecchio ma anche con il genero, e accertata la volontà del macellaio di sposare la ragazza prima di andarsene per sempre, una girandola di ipotesi si affaccia fra i componenti della famigliola adesso ben serrata contro l’intrusa. Sarà l’infermiere, la cui disponibilità per far soldi travalica ogni limite – dalla mancia per l’entrata al sovrapprezzo per le sigarette, alla tangente per il funerale affidato ad una ditta amica – fino ad arrivare, un po’ fumosamente – e qui forse la scrittura o la regia sono state ambiguamente soft – a far fuori il vecchio, dietro lauto compenso, e consentire ad ognuno di ereditare quelle tante macelleria da lui create nel corso di una vita.
Se i personaggi scritti da Clementi sono già ben vivi, è la regia ad avvolgerli in un ben delineato tessuto espressivo. E’ così che Pietro De Silva emerge da quell’anonimato di infermiere come una figurina da film muto, nervosa, perfida e tenera nella sua illusoria speranza di gioia – lasciare la famiglia e raggiungere la giovane amante a Cuba – ; Adriana Ortolani passa con sorprendente capacità dalla giovane innamorata dei “baba” e dell’ascesi, alla burina che protesta per timore di essere penalizzata nell’eredità; Giulia Ricciardi nell’apparente docilità della moglie rassegnata al tradimento cela con astuzia la sua fredda capacità di calcolo – tradita sì, ma se conviene, meglio far finta di niente; Loredana Piedimonte, la piccola rumena da umiliata della terra subito monta a fare dispoticamente la signora, dimostrando che purtroppo anche i poveri sognano la ricchezza e non la lotta di classe. Chi si diverte più di tutti è Ennio Coltorti che padroneggia l’impasto della pièce attraverso una regia calibrata e mai volgare, dosando toni grotteschi con momenti di lucida manifestazione – brechtianamente – dell’abisso di cinismo dell’animo umano; dalla sua parte ha anche il personaggio che manovra l’intero spettacolo, il genero che riuscirà a mettere tutto a posto, con buona pace dell’anima del caro estinto.