NOVANTADUE

NOVANTADUE 3

Falcone e Borsellino, 20 anni dopo

di Claudio Fava

con

Filippo Dini, Giovanni Falcone

Giovanni Moschella, Paolo Borsellino

Pierluigi Corallo, Consigliere istruttore, Mafioso

luci Stefano Valentini

suono Gianfranco Pedetti

allestimento e regia Marcello Cotugno

produzione BAM Teatro

in collaborazione con

XXXVII Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano

e Festival L’Opera Galleggiante

Teatro Piccolo Eliseo, Roma

2 maggio 2018

Maricla Boggio

Il titolo scarno – Novantadue – riporta a quell’anno per una riflessione indietro nel tempo e un’irresistibile volontà di indagare su quella che fu la conclusione di un tentativo di riscatto da parte di una magistratura che sperava di far emergere la dignità dello Stato contro una mafia sembrata fino ad allora invincibile.

Ed è proprio Claudio Fava, figlio di quell’autore – Giuseppe – che la mafia assassinò a Catania, davanti al teatro in cui si rappresentava un suo testo di denuncia – a scrivere questo testo fisicamente sentito e vissuto, proposto con il distacco della riflessione e insieme l’adesione all’umanità dei protagonisti, come una vicenda personale e collettiva, alla maniera delle antiche tragedie che appartenevano a tutta la comunità.

Punto di riferimento al prima e al dopo, questo Novantadue rimbalza in scena come traguardo attraverso i due magistrati – Falcone e Borsellino – che riuscirono, con un lavoro sorprendente per ampiezza e capacità , per rischio personale e sacrificio del privato, a far condannare nel grande processo di Palermo tutti i capi mafiosi fino ad allora rimasti indenni. Ma irridentemente questo Novantadue è anche il punto in cui i due protagonisti di questo grande lavoro pagano con la vita il loro accanimento di giusti, perché un’altra mafia si è di nuovo attrezzata a distruggere chi è contro di essa. La grande tristissima derisoria scoperta è che quello stesso Stato che Falcone e Borsellino pensavano di rappresentare e di difendere è loro nemico, connivente con la violenza mafiosa, ed “è” lo Stato stesso – una parte di esso – a vanificarne gli sforzi.

Questa amara constatazione percorre l’intero spettacolo, pur alleviata da un’emergente novità del presente, in cui la constatazione di connivenze dello Stato con la mafia si apre a una intransigenza in cui non sarà più accettabile una pur velata esistenza di patteggiamenti fra le due forze avverse.

Ciò che conta soprattutto in questo spettacolo, sono i riferimenti alle esistenze dei due magistrati, intrecciati in un lungo dialogo in cui si trovano a convivere, lontani dalle proprie case e famiglie per esigenze relative alla loro stessa sopravvivenza – il giudice Caponnetto “impose” loro di lavorare alle carte del processo nel carcere dell’Asinara, unico luogo sicuro da attentati altre volte quasi andati a segno o previsti in tempi ravvicinati.

Nella drammaturgia di Fava i due giudici sono davvero personaggi che mostrano come la loro umanità travalichi le competenze giuridiche: i due lavorano giorno e notte affiancati nella preparazione del processo, ma fra le pieghe del lavoro stressante e di suprema responsabilità emerge la loro sensibilità di esseri dotati di sentimenti e di sogni, la loro tendenza a voler superare il momento duro della sfida giuridica nel pensiero di una vita diversa. Non confidenze casuali, o esemplificative, ma il dispiegarsi di una sofferta coscienza in un lavoro accettato nella loro dignità di uomini, e anche una allegra speranza di riuscita nell’affermazione della giustizia. Via via, i racconti rivissuti di momenti che avevano denunciato una situazione impensabile – l’intervento dei Servizi Segreti a cercare di far saltare in aria Falcone all’Addaura, su quello scoglio sotto la sua casa di vacanza, sventato da poliziotti attenti al giudice contro altri, infiltrati e decisi ad annientarlo – , e ancora lo scrupolo del proprio operato rispetto ai figli, alla responsabilità delle loro vite di fronte all’imperativo di agire per la giustizia…

A contrasto emerge l’altra faccia della magistratura, lo schiaffo della mancata promozione di Falcone motivata con la pignolesca applicazione del diritto di precedenza dell’anzianità, l’umiliazione di aver affidati processi da niente mentre il pool antimafia viene distrutto dal nuovo responsabile, irridente e beffardo. Cose che a pensarci oggi paiono impossibili eppure furono vere, come vera fu quell’inaudita affermazione di Sciascia, che il pool antimafia fosse uno strumento di potere, del che poi lo scrittore ebbe a riconoscere il suo errore.

Difficile costruire personaggi dove ormai si sono instaurati simboli ed eroi. Ma qui Fava ci riesce, offrendo un’umanità a cui non sfugge il documento.

È Marcello Cotugno, regista dello spettacolo, a infondere calore a queste scene già ben delineate nella loro verbalità. Ma quanto aiutano le metafore che offrono agli spettatori momenti di intensa partecipazione!, come quel Falcone morto che torna accanto a Borsellino così come si porrà sul tavolo-letto di obitorio, i piedi a sporgere da sotto il lenzuolo mentre Borsellino esprime tutto la sua rabbiosa disperazione frustando il terreno con la cinghia dei pantaloni, impotenza e dolore che arrivano agli spettatori più che un lungo monologo shakespeariano. E anche la difficile intrusione degli interventi dei mafiosi al processo e poi in carcere, dove uno di questi, fra compiacimento e disperazione, fra coscienza affiorante e antico orgoglio di casta mafiosa, rivela a Borsellino la sua morte annunciata, festeggiata con champagne da una mafia di nuovo prosperante. I personaggi che intervengono a documentare la tragedia imminente dell’assassinio di Borsellino sono dei mafiosi a cui non viene negata nella rappresentazione una loro perversa e travisata umanità, che cercherebbe quasi un riscatto, un bel tratto drammaturgico in questi personaggi di ispirazione dantesca.

I due momenti della tragedia sono descritti con asciuttezza dagli stessi operatori dei crimini: avvolto in un clima di dolcezze paesaggistiche l’attesa del passaggio di Falcone sulla strada minata, un gioco da cui è lontana la coscienza; sul filo di una favola infantile quel curarsi della piccola auto rossa messa a punto come per una gita, su cui sarà caricata l’enorme quantità di tritolo destinato ad annientare Borsellino.

Gli attori hanno offerto molto di sé per arrivare a questo stadio di ambiguità positive e negative. A cominciare dal rievocante Filippo Dini – Falcone, che non tradisce una sua duplice cifra di intrinseca volontà di impegno e di sofferta individualità. E poi il Borsellino di Giovanni Moschella, il consigliere generoso a cui è estranea l’invidia per il collega sua guida, avendo di sua caratteristica un sentimento religioso che lo sostiene con estremo pudore, e il momento della richiesta della confessione è di alto livello registico. Infine i molteplici personaggi interpretati da Pierluigi Corallo, dall’ottusa cordialità del nuovo “capo” imposto a Falcone per la rigidezza burocratica della magistratura, alla protervia del mafioso provocatore, alla disperata ossessività del non-pentito che pur vorrebbe rivelare. In sintonia con il testo di Claudio Fava, la regia di Marcello Cotugno è riuscita a equilibrare una cifra straniata di stile brechtiano con un afflato partecipativo dei personaggi in questa vicenda destinata ad avere ancora nel tempo altri e sorprendenti   sviluppi, come già Falcone e Borsellino avevano previsto.