ODISSEA A/R

TEATRO BIONDO: L'ODISSEA DI EMMA DANTE ESEGUITA DAGLI ALLIEVI DELLA SCUOLA DEI MESTIERI DELLO SPETTACOLO.

liberamente tratto dal poema di Omero

testo e regia di Emma Dante

con gli allievi della “Scuola di mestieri dello spettacolo”

del Teatro Biondo di Palermo

elementi scenici e costumi Emma Dante

luci Cristian Zucaro

suono Gabriele Gugliara

canzoni Serena Ganci e Bruno Di Chiara

produzione Teatro Biondo di Palermo

Roma, 31 gennaio 2017

Maricla Boggio

Lo spettacolo pensato e realizzato da Emma Dante ha il sapore di una favola infantile. In questa premessa si ritrova tutta la bellezza, la spontaneità e l’allegria che si sviluppa per tutta la sua complessa narrazione, attraverso l’apporto dei ventitrè allievi attori della Scuola di mestieri dello spettacolo diretta dalla Dante al Biondo di Palermo.

E’ dalla concezione di questa Scuola che deriva la cifra espressiva della rappresentazione, il viaggio di Odisseo fino al suo ritorno ad Itaca, ma nel contempo la maturazione di suo figlio – Telemaco – che va alla sua ricerca, e la situazione critica della reggia dove Penelope langue assediata dai Proci, difendendosi con la la tessitura della sua tela infinita, di cui si fa scudo e lenzuolo funebre, in una geniale trasformazione dai flutti del mare al sepolcro, a cui tutti i giovani attori partecipano, uomini e donne nei due diversi ruoli, di marinai e di ancelle. E bisogna riconoscere quanto sia determinante l’apporto dei suoni, delle canzoni collettive, delle musiche popolari che accompagnano le danze in una sorta di festa paesana, o piuttosto di giocosa recita di ragazzi in vacanza.

Questa della Dante non è scuola per diventare attore secondo le regole, necessarie anche se poi disattese, relative alla voce, alla gestualità, all’immedesimazione in un personaggio scritto da un autore di teatro, ma spinta a una creazione collettiva, dietro suggerimenti e suggestioni dell’ispiratrice di questo singolare metodo, in cui ogni essere umano può rappresentarsi altro attraverso metafora fantastica di sé, nella ricerca e nel ritrovamento di una radice mitica, attraverso la riscoperta di una spontaneità creativa che per analogia, anche se con differenze poi sostanziali rispetto al testo – determinante nel teatro di Orazio Costa – ricorda il metodo mimico del Maestro, che ha formato generazioni di attori e registi, fino agli ultimi Alessio Boni, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio, e decenni prima Nino Manfredi, Luca Ronconi, Gabriele Lavia ecc., e anch’io che questo metodo che sollecita la propria capacità creativa insegno all’università.

E’, questo della Dante, un recupero di narrazioni di cui erano padrone le vecchie dei villaggi, e forse così è stato nell’iniziale elaborarsi del poema omerico su cui gioca la Dante, con partecipazioni entusiasticamente collettive e l’uso predominante di quel dialetto in cui nasceva la storia leggendaria, spontanea, a cui tutti potevano attingere e ispirarsi, sognando di sé origini divine, rese simili a quelle umane.

La creatività del gruppo predomina, certo tenuta in mano dalla Dante, che inserisce poi l’uso di materiali i più semplici per legare gli avvenimenti e raccontarli rifacendosi alla suggestione fantastica. La mitica tela divenuta un velo funebre e vedovile si svolge attraverso le alacri ancelle seppellendo l’affranta Penelope al tempo stesso sdipanandosi da vibranti solchi marini. Lunghi teli lanciati a diventare vele per la partenza di Telemaco, sfuggente alla madre possessiva, coadiuvato dalla connivente nutrice Euriclea, oppure oscillanti onde marine per simulare il viaggio e così via, e soprattutto l’acqua, signora incontrastata. E’ un po’ la filosofia sostenuta da Peter Brook, a proposito della sedia sulla nuda scena, che può diventare cavallo, trono, torre, e il realismo si cancella in nome dell’immaginazione sovrana.

Il mondo delle divinità si ammanta di ironica dimensione umana, a cominciare dallo Zeus palestrato che una Atena un po’ sciantosa spagnola  supplica di strappare alla maliarda Calipso lo sperduto Odisseo per rimandarlo a casa, mentre la bella seduttrice in bichini di fiammeggianti strass si convince a malincuore a rendere l’eroe al mare che lo riporterà in patria. Ed è particolarmente bella, proprio perché semplice nel materiale e ricca di significati simbolici, quell’immergersi disperato del capo di Odisseo nel catino colmo d’acqua, che poi si moltiplica in spruzzi luccicando nell’aria, fino a che è la stessa Calipso a far muovere l’acqua del catino in un quieto sussurrare di onde, con affettuosa ironia invitando l’amante a partire.

La narrazione si snoda con leggerezza ed entusiasmo da parte di tutti gli interpreti, dove emerge anche qualche giovane nell’interpretare un personaggio, dallo statuario Telemaco alla impetuosa Euriclea, all’astuto Odisseo e alla sognante e non rassegnata Penelope in perenne attesa.

Scartata la gara dell’arco in cui si dichiara vincitore  un Odisseo occultato nell’aspetto, impossibile forse a rendersi in scena, il finale si attua attraverso una battaglia a colpi di lunghi bastoni di stile un po’ samurai, dove trionfano sui pavidi e spocchiosi Proci padre e figlio insieme alla stessa Penelope in veste di guerriera insieme alla fida Nutrice. E’ un finale un po’ “sotto” rispetto alla vivacità espressiva dei momenti precedenti, dove sia il gruppo delle ragazze-ancelle che quello dei ragazzi-Proci si lasciano godere per la musicalità del dialetto e la sveltezza gestuale, che lascia indovinare strade e piazzette palermitane d’antan, dove finalmente non si esalta o si denigra la mafia e i suoi personaggi a rischio di celebrazione.

Fra i tanti spettacoli ormai visti di Emma Dante, questo è forse il più genuino come cifra rappresentativa nel raccontare, consentendo ai giovani attori di esprimersi in una libertà ben guidata.