ORCHIDEE


pezzi di vita, amore e morte, nel racconto intimo e privato delle confessioni dell’attore con la tenera e potente capacità della sua compagnia per interrogarsi sul senso della rappresentazione e dell’orrore quotidiano.
una coproduzione fra Teatro di Roma, Emilia-Romagna Teatro Fondazione, Nuova Scena-Arena del Sole-Teatro stabile di Bologna con il Théâtre du Rond Point di Parigi e la Maison de la Culture d’Amiens-Centre de création et de production.

Teatro Argentina, 7 – 19 gennaio 2014.
Maricla Boggio

Questo spettacolo di Pippo Delbono è un “monstre”, sia per quanto riguarda i teatri che coalizzandosi lo hanno prodotto, sia per il coacervo di materiali sonori, filmici e verbali, oltre che esperienziali, da lui accorpati, per offrire ai suoi spettatori, ormai legati a lui da anni nel seguirlo circa i temi e le riflessioni, un panorama più complesso del solito e, se si può intravvedere attraverso le maglie del negativo – che Delbono chiama “orrore” -, anche una tensione verso il positivo, che si manifesta attraverso l’amore e la sua necessità, sia nella realtà del quotidiano, sia nella dimensione poetica fissata come parametro linguistico a cui fare riferimento, specie in momenti di negatività e di abbandono al pessimismo.
“Orchidee” è un titolo che attira, incuriosisce; meno convincente la sua spiegazione, tranne che non si affidi alla poesia. Delbono vede in questo fiore la confusione fra vero e falso: le tecnologie avanzate imitano la natura e più di ogni altro fiore, questo si confonde dalla delicatezza dei petali alla plastica imitatrice. L’orchidea è quindi presa a simbolo di un momento critico del nostro mondo, dove non si riesce a distinguere il comportamento buono dal malvagio, l’azione positiva dalla falsa, e l’esistenza annega nell’equivoco. Davanti a uno schermo che tiene tutta l’estensione del palcoscenico, Delbono spazia danzando con quelle sue mosse rozze e tenere, di bambino oscillante alla ricerca di equilibrio, e con lui che manifesta nei loro confronti una sorta di sentimento paterno, i suoi danzatori che lo seguono, lo imitano, ne animano le fantasie.
Ci sono momenti che avremmo voluto più brevi, perché ripetitivi e anche poco espressivi: come le tante scimmie tarlate, da museo zoologico, che fa susseguire un video di fattura eccellente, alternate a volti impassibili di donne supertruccate, gli occhi fissi in una immobilità irreale, falsa appunto, e determinata dal trucco glamour.
Impossibile – e inutile – seguire con la volontà di dare coerenza al racconto le varie fasi dello spettacolo. All’inizio, nel buio, si sente soltanto la voce di Pippo, flautata e derisoria citando gli abbonati “costretti” o “liberi” di scegliere lo spettacolo da vedere, con esempi di signore che stracciano l’abbonamento dopo aver visto la rappresentazione; poi “buon divertimento!” come incentivo a “consumare” teatro, e anche offerta garbata di dolcetti agli spettatori di corridoio. Finalmente Delbono si lancia nello spettacolo. E’ la madre a ricorrere nei suoi discorsi: “Quando io ero piccolo” è un segnale di condivisione che attraversa gli spettatori – ognuno o quasi, quando era piccolo, ha avuto dialoghi con la propria madre, cose minime rimaste impresse nell’animo, a cui il pensiero adulto ritorna consolandosi delle frustrazioni. I momenti intimi e quelli plateali si alternano, come in un flusso della coscienza. Un “Nerone” di Mascagni, insuccesso clamoroso di epoca fascista – a Mussolini spiacque, vedendovi lui stesso ammantato – trascina una lunga scena che con impeccabile doppiaggio uno degli attori “storici” di Pippo, dal lucido cranio tondeggiante e dalla figura di pupo, porta fino in fondo, circonfuso di alloro: finzione rispetto alla buona musica? Si va avanti fra momenti di informazione e momenti di emozione. Storie e confidenze, piccoli racconti di vite vissute si susseguono. Bobò – che tempo fa si era rotto una caviglia – appare su di una sedia a rotelle da cui pur risanato non intende dividersi; con piccoli gesti teneri dialoga con gli spettatori, contento e candido come quel bambino che è rimasto, dopo 45 anni di manicomio e 77 anni di età: è lui il centro di questa bizzarra famiglia di vaganti costruita da Pippo nel suo peregrinare per il mondo. A tratti la voce di Pippo emerge dal buio o da infiammati sfondi cinematografici. E’ allora il monologo di Romeo innamorato e di Romeo di fronte a Giulietta morta, o il ricordo cecoviano del Giardino dei ciliegi rimpianto e perduto, che tanto ricorda gli alberi fioriti davanti alle finestre della casa materna, o ancora Ofelia annegata, o Amleto nel suo “Essere o non essere” sciorinato con tranquilla riflessività, e poi il Büchner de “La morte di Danton” e altri autori ancora dai vividi monologhi, a sollecitare l’universo poetico di Delbono, per la consolazione del dolore attraverso l’esaltazione dell’amore al di là della morte, e il confronto fra l’orrore della morte e la vita trionfante.
Fa sorgere dubbi la scena, filmata dal vero, della madre morente di Pippo; antica maestra a cui tutto il paese ha reso omaggio nella piccola chiesa del paese per il suo funerale, ne vediamo il volto prossimo alla fine appoggiato al cuscino, e la mano debolmente vitale che quella del figlio stringe in una sorta di induzione alla vita e di consolatoria condivisione. E’ una scena che ci lascia perplessi, anche se suscitatrice di umana pietà. Dice Pippo che soltanto chi sta bene può permettersi la pietà, ma crediamo che la pietà non riguardi la condizione sociale, semmai non sono i ricchi a provarla, ma chi condivide. Più o meno un anno fa morì sua madre, e Delbono la filmò. Forse il momento cruciale poteva restare soltanto suo; e poi, per lo spettacolo rievocarlo secondo la capacità evocatrice del teatro. Forse è per impeto di sincerità che Delbono arriva a questi estremi: l’attore va portando in giro per il mondo un messaggio certo inedito e toccante al di là degli stereotipi: suscita una impressione forte questo suo raccontare e vivere e far vivere e ragionare. Con lui non bisogna contare su di uno “spettacolo” in senso tradizionale; un suo spettacolo è sempre uno spezzone di vita che va presa come lui la esibisce, con coraggio e generosità, qualche difetto narcisistico, e una ostinata voglia di protagonismo che gli suggerisce più finali per stare ancora inscena, a vivere, come lui stessi dichiara. Pippo riesce a smuovere gli Stati, a convincere i produttori a spese esorbitanti, coinvolgendo tanti attori in un meccanismo scenico che supera difficoltà economiche e pratiche. Di vita da uno spettacolo di Delbono ne arriva parecchia, bellissima scossa fra innumerevoli rappresentazioni che ci invadono di immensa perfettissima noia.