ORESTEA – Agamennone, Coefore, Eumenidi

Mariano Rigillo e Elisabetta Pozzi Orestea credit Fabio Donatodi Eschilo

traduzione di Monica Centanni

regia Luca De Fusco

con

Mariano Rigillo, Elisabetta Pozzi, Angela Pagano, Gaia Aprea, Claudio Di Palma, Giacinto Palmarini, Anna Teresa Rossini, Paolo Serra

scene Maurizio Balò

costumi Zaira de Vincentiis

coreografie Nora Wertheim

musiche Ran Bagno

luci Gigi Saccomandi

suono Hubert Westkemper

adattamento vocale Paolo Coletta

video Alessandro Papa

Roma, Teatro Argentina, 12 gennaio 2016

Maricla Boggio

Solo in poche occasione si può assistere alla rappresentazione della trilogia – unica a noi rimasta fra le tragedie greche – di Eschilo.

Ne ha condizionato la rappresentazione la complessità dell’ampio racconto drammatico e la necessità di un articolato insieme di attori, parecchi dei quali in ruoli da protagonista anche se per poche battute, mentre altri riempiono la scena a lungo e in più di una delle tre parti.

Ora Luca De Fusco, con uno sforzo artistico, organizzativo ed economico ha messo in scena questa successione tragica, coinvolgendo gli spettatori ad accompagnare la sua creatura dall’inizio alla fine, il che consente di darle quel senso compiuto, non solo d’arte ma anche di riflessione politica, che il ciclo rappresenta e che si perde nella frammentazione.

Dico questo perché il maggior merito dell’operazione è quello di tenere avvinti gli spettatori per tutte le quattro ore di spettacolo, nella tensione non tanto di seguire una vicenda per tutti conosciuta, quanto per capirne l’andamento, che comporta il passaggio nei secoli da una civiltà barbarica a un momento civile, attraverso l’affermazione della giustizia che sostituisce la vendetta.

Ma Eschilo era un poeta, e la poesia è madre della filosofia, che anticipa e rende accessibile alle menti anche meno colte. E così questo passaggio di tipo giuridico si snoda attraverso le vicende della casa degli Atridi, nel momento successivo alla caduta di Troia per mano dei Greci. E’ il sangue ad ergersi protagonista delle sequenze arcaiche, dove una nitida feroce Elisabetta Pozzi riempie la scena da regina Clitemnestra, circondata dalle ancelle, dai membri del Coro, qui resi singolarmente in una dimensione più colloquiale, fino all’arrivo del re, quell’Agamennone a cui Mariano Rigillo offre dimensione e vocalità davvero imperiose. Coadiuvano gli attori gli elementi della scenografia, di singolarità preziosa, dovuti a Maurizio Balò, che con varie sfumature muta nel corso degli eventi restando intatta nella struttura. La spianata di scura sabbia mobile da cui emergono a tratti guerrieri e scolte si tinge di porpora preziosa per onorare il re ritornato, ma sarà poi simbolo di sangue a scorrere quando verranno compiuti i delitti che si succederanno in questa prima tragedia.

A questo inizio cruento di vendetta compiuta da Clitemnestra insieme al suo amante Egisto – Paolo Serra, di forte determinazione gestuale – fa seguito, con “Coefore”, il ritorno di Oreste dopo dieci anni di regno dei due amanti. L’incontro con la sorella Elettra è uno dei momenti di più toccante emozionalità, da cui scaturisce la decisione di uccidere la madre e il suo amante. Ed è questo delitto, perpetrato con precisa volontà di ripagare con esso il delitto compiuto dalla madre nei confronti del padre, che costituisce materia di rimorso per Oreste, Giacinto Palmarini, semplice e teso, balzante in scena quasi a seguire il balenio della sofferenza interiore, tema che per tutta la tragedia si sviluppa attraverso le imprecazioni delle Erinni, e la volontà del ragazzo di purificarsi e di espiare, rimanendo tuttavia convinto di quanto da lui realizzato.

E’ interessante vedere come gli attori, guidati da De Fusco, cerchino una strada che tenga conto dell’altezza poetica delle battute nel contempo introducendovi vocalità colloquiali, come a voler significare che delitti, invidie e atrocità appartengono anche al nostro mondo, pur avendo noi acquisito da secoli la gestione della giustizia.

Ed è “Eumenidi” a concludere l’arco di questo pensiero poetico e filosofico a un tempo.

Sono allora in campo Apollo ed Atena, mentre la Pizia – Anna Teresa Rossini, ispirata e lirica nella sua veggenza – introduce l’arrivo di Oreste che vaga senza pace nel tormento del delitto compiuto. Di pura bellezza la scena appena sottolineata da pareti lucide, mentre una superba Atena – Gaia Aprea, già limpida Cassandra sacrificale – ingigantita a tratti da un’immagine proiettata – è una cifra che Luca ormai si concede in ogni sua regia – pone le basi del moderno tribunale, dove non è più da condannare irrevocabilmente chi ha ucciso un parente di sangue rispetto a chi ha ucciso semplicemente, e saranno i cittadini a gestire tale tribunale, creato da Atena. Il coinvolgimento degli spettatori attraverso l’illuminarsi del teatro e l’apparire in scena di una parte del teatro stesso è una bella sottolineatura di questa civiltà liberata dalla gestione personale della giustizia, che purtroppo appare ancora oggi spesse volte quasi un’utopia. E finalmente le Erinni, guidate da una imperativa Angela Pagano, poi sciolta nel canto, si trasformano in creature rasserenatrici, in Eumenidi appunto, concludendo la trilogia.

Sciolti dalla tensione di uno spettacolo di notevole responsabilità, gli attori, ormai nei loro camerini aperti ad amici e ammiratori, ridono e si scrollano di dosso i pesanti costumi, le parucche irte, i trucchi di scena. Dopo duemilacinquecento anni la parola è ancora protagonista che si trasmette di attore in attore.