QUATTRO BUFFE STORIE

da Pirandello – Cecé, La patente –
a Cechov – La domanda di matrimonio, Fa male il tabacco

con Glauco Mauri e Roberto Sturno
e Mauro Mandolini, Laura Garofoli, Amedeo D’Amico,
Lorenzo Lazzarini, Paolo Benvenuto Vezzoso
scene Giuliao Spinelli
costumi Liliana Sotira
musiche Germano Mazzocchetti
regia di Glauco Mauri
Roma Teatro Parioli, dal 29 gennaio 2015

Maricla Boggio

E’ un dialogare accorto, sornione e sapiente, quello che Glauco Mauri ha messo in scena attraverso quattro testi – due di Prandello e due di Cechov – sotto il titolo, ironico e ammiccante “Quattro storie buffe”. Perché poi, di buffo c’è soltanto l’apparenza, che Mauri esalta nell’interpretazione sua e dei suoi attori.

Ma sotto tale apparenza, si cela l’universo tragico, grottesco e doloroso di ogni individuo. Di cui palesemente Cechov invita a ridere chiamando “scherzi” le sue brevi composizioni, dentro la cui essenzialità tutto è stato detto sull’animo umano. Più sopra le righe, la finalità denunciatoria di Pirandello, che ride amaro e triste anche se non rinuncia a divertire il pubblico che tanto somiglia a quei suoi personaggi, nell’imbrogliare il prossimo e perfino l’amico, e nel credere al malocchio.
Essere tornato ad autori “classici” dopo incursioni in modernità anche diverse dalla drammaturgia, riporta questo attore e regista che da sessant’anni si offre al pubblico in innumerevoli interpretazioni, ai suoi tempi migliori, di frequentazioni drammaturgicamente ricche, dove scavare nei personaggi mette in risalto l’intepretazione.
Scartando il racconto delle trame, vorrei focalizzare il risultato di questo spettacolo nella riuscita alternanza offerta da Mauri e da Sturno nelle quattro pièces. In “Cecè” entrambi in scena, con l’apporto brillante di Laura Garofoli, la vamp da imbrogliona a imbrogliata – i due giocano una partita a chi più si slancia con tratti epici alla denuncia di una corruzione da tangenti e bustarelle di moderna attualità. Prevale poi il grottesco ne La patente”, che giustamente in una sua nota Mauri segnala nell’interpretazione di Totò, nel film di Zampa, da cui il nostro attore si distacca in un gioco proiettato al grottesco, con l’apporto in scena degli altri attori fra cui spicca nella parte del giudice bonario Mauro Mandolini. L’alternanza fra Mauri e Sturno prosegue nel duo cechoviano.
La giocosità de “La domanda di matrimonio” induce ad un puro divertimento per l’interpretazione di Sturno, pretendente afflitto da tic e difficoltà motorie in visita a dei vicini per chiedere in sposa la figlia del possidente con lui confinante, assecondato da Laura Garofoli, gorgheggiante e perversa contradditrice affiancata da Mauro Mandolini, il padre, che riuscirà alla fine a congiungere le mani dei due litiganti in una promessa matrimoniale che, è certo, non metterà fine ai deliranti contrasti dei due sposi, i quali sotto l’apparenza dello spettacolo mostrano quella “rivalità mimetica” di cui parla René Girard, e che induce due individui a contrastarsi a vicenda fino alla totale distruzione di entrambi.
Ben altro spessore ha “Fa male il tabacco” che nella sua apparente semplicità di scrittura nasconde profondità esperienziali di esistenza sofferta e silenziosa. Votato alla schiavitù della moglie che lo piega ai suoi comandi aggravandolo di ogni incombenza casalinga e lavorativa – lei ha fondato una sorta di scuola a cui è lui a sostenere l’insegnamento e le cose pratiche -, il povero anziano è costretto a tenere una conferenza in cui – lui fumatore accanito vessato dalla donna che vorrebbe costringerlo a smettere – dovrebbe dichiarare che il tabacco fa male e indurre gli ascoltatori a desitere da tale vizio.
Ma l’uomo approfitta di quell’occasione per dialogare in forma soliloquiale con chi lo ascolta e riversare in quelle orecchie tutte le sofferenze della sua vita avvelenata dall’oppressività dittatoriale della moglie. I lievi cenni verso lo spazio dietro di lui, a temere che quella lo ascolti, il tono sommesso per non farsi udire, le esitazioni per dire e non dire, in una sorta di pietà di se stesso e di vergogna per la sua situazione, fanno del testo un capolavoro pur nella sua esiguità – ma la lunghezza non è una forma misurabile di bellezza – e offrono a Glauco Mauri, solo in scena, la possiibilità di mettere in atto le sue più delicate capacità di interpretazione, direi in una forma creativa che rende il testo del tutto suo e come inventato mentre lo pronuncia.
In una nota al programma Mauri racconta di una tournée in America del Sud, sessant’anni fa, in cui giovanissimo stava in compagnia con Memo Benassi, che quel testo interpretava. E rivela come pensasse, allora, al desiderio di interpretare lui, una volta vecchio, quel testo. Così è stato, perché l’animo umano nella sua profonda sostanza non cambia, al di là delle apparenze mondane.