RE LEAR

RE LEAR_Giorgio Barberio Corsetti_Ennio fantastichini_foto di Achille Le Pera (5) (002)

di William Shakespeare

traduzione di Cesare Garboli

regia e adattamente di Giorgio Barberio Corsetti

con Ennio Fantastichini

Michele Di Mauro, Roberto Rustioni Francesco Villano

Francesca Ciocchetti,  Sara Putignano, Alice Giroldini,

Mariano Pirrello, Pierluigi Corallo, Gabriele Portoghese,

Andrea Di Casa, Antonio Bannò,  Zoe Zolferino

scene e costumi Francesco Esposito

luci Gianluca Cappelletti

musiche dal vivo Luca Nostro

video Igor Renzetti e Lorenzo Bruno

Produzione Teatro di Roma e Teatro Biondo di Palermo

La foto con Giorgio Barberio Corsetti e Ennio Fantastichini

è di Achille Le Pera

Roma, Teatro Argentina, 21.11.17

Maricla Boggio

È stata davvero una sorpresa vedere “Re Lear” nella regia di Giorgio Barberio Corsetti. Avendone visti quasi tutti gli spettacoli, per decenni, ho trovato questo Lear maturato per il modo rigoroso di tener conto del testo, non più flessibile a idee sovrapposte, ma sviluppato secondo l’andamento delle varie scene, pur in una cifra ben distinguibile di interpretazione.

Dice Barberio Corsetti che questo Lear “è una favola ed è una tragedia di padri e figli”.

Ho avuto l’impressione che la favola, nella sua scelta espressiva, fosse molto nascosta, mentre la tragedia di padri e figli si impone in tutta la sua forza realistica.

Barberio Corsetti calca la mano, pur mantenendo il rispetto del testo, su di un Re che abbandona il comando per godersi la vita. Non era forse questa la dimensione di Shakespeare, che al personaggio ha dato fin dall’inizio una forma esemplare sul piano di una saggezza che si scontra illusoriamente con una realtà che la svilisce appropriandosi del potere da lui distribuito come di un diritto capace di distruggerne la fonte.

Questa dimensione tragica e al tempo stesso godereccia appare soprattutto all’inizio dello spettacolo, in cui si susseguono le immagini di un festino orgiastico, con un Lear alle prese con ubriacature e rapporti sessuali, quasi una festa prima delle nozze, che si acqueta poi nella grande scena della suddivisione dei beni e dei poteri alle tre figlie.

Da questo punto in avanti il dramma di Lear ha inizio in un crescendo di quelle nefandezze che figurano nella scrittura shakespeariana. Lear, nella scelta di Barberio Corsetti, accentua le caratteristiche di un iracondo e popolaresco sovrano, che sa più di arcaicità greca che di favola. La stessa figura  di Ennio Fantastichini, che lo interpreta con pervicace forza espressiva  favorisce questa dimensione. Anche gli altri personaggi ne seguono tale scelta, specie il Gloucester di Michele Di Mauro, di un realismo ammiccante e familiare, la Ctoneril di Francesca Ciocchetti quasi personaggio elliottiano, e l’Edmund proteso con dura determinazione alla conquista del potere di Francesco Villano.

C’è un progredire di scena in scena verso una sottrazione di elementi scenografici e di costumi, un impoverimento che accresce la suggestività simbolica delle azioni, che fanno pensare, rispetto a momenti precedenti, a certe distese nude di Strehler, dai fondali evanescenti. E in parallelo con questa sottrazione, i personaggi che risultano al centro delle azioni appaiono sempre più vicini a quella essenzialità che ci offre Beckett in testi come “Aspettando Godot”. Ma quel Gloucester che viene accecato e si trascina inconsapevolmente dietro al figlio irriconoscibile Edgar – Gabriele Portoghese, quasi  Living nel suo agitarsi doloroso – , è un po’ anche Edipo.

È certo Shakespeare abbia avuto dentro di sé, senza neanche rendersene consapevole, la tragedia greca. Qui la tragedia c’è anche, in un finale che lascia storditi, e la favola è sparita. Non c’è soluzione consolatoria, e Cordelia, la buona, la giusta, muore sgozzata. Questa Cordelia, che Alice Giroldini interpreta con asciuttezza da bambina giudiziosa, è anche, per un breve passaggio da regina di Francia, rivestita di una lucente armatura che la richiama a Giovanna d’Arco.

Barberio Corsetti, giunto alla scena finale, di Cordelia sgozzata nelle braccia del padre, che a sua molta muore, pare lasciar andare all’evidenza della morte un significato conclusivo. Dobbiamo soltanto spiare quei due essere immeschiniti e offesi, sugli scalini ferrigni al centro della scena.