SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA SBORNIA

di Eduardo De Filippo

liberamente tratta dalla commedia La fortuna si diverte di Athos Setti

con

Luca De Filippo Carolina Rosi Nicola Di Pinto, Massimo De Matteo

Giovanni Allocca Carmen Annibale Gianni Cannavacciuolo Paola Fulciniti Viola Forestiero

regia di Armando Pugliese

costumi di Silvia Polidori

musiche di Nicola Piovani

luci Stefano Stacchini

Roma, Teatro Quirino, 6 maggio 2014

Maricla Boggio

Varie le elaborazioni della commedia di Athos Setti nata in linguaggio toscano, del 1933: Ettore Petrolini ne fece una sua edizione in romanesco nel 1934 – La fortuna di Cecè -; Angelo Musco ne mise in scena una versione siciliana – La profezia di Dante – ; infine, nel 1937, Eduardo la traspose in napoletano, dandole anche un titolo echeggiante Shakespeare –Sogno di una notte di mezza sbornia – , aderente in effetti alla situazione, di questo Pasquale ubriacone e sognatore, che dopo aver bevuto abbondantemente in un dormiveglia popolato di sogni, riceve da Dante, che spesso è venuto a trovarlo, riconoscente per un suo busto in casa dal protagonista, il quale lo ha esposto, non per particolare omaggio, ma perché  costretto a tenersi quel gesso regalatogli da un coinquilino che se ne andava, e che non se l’è voluto comprare nessuno. Dante in quel sogno da ubriacatura, gli porta quattro numeri per il lotto.  Deriso dalla moglie e dalla fida cameriera che non credono alla vincita, Pasquale ha perfino costretto il figlio che lavora da fabbro a lasciare il lavoro. Ascoltato da tutta la famiglia convinta che si tratti del solito vaneggiamento in cui il sogno si confonde con la sbronza, Pasquale questa volta ha davvero ragione. Ha vinto seicento milioni e tutti si danno alla gioia più sfrenata. Questo primo tempo della commedia è servito a Eduardo per preparare al secondo, assai più condito di effetti comici, a cominciare dall’arredamento della casa che Pasquale abita dopo la vincita milionaria, tutta ori stucchi e luminarie intorno alla statua di Dante, loro benefattore, venerato come San Gennaro. Ci sono poi, a mostrare l’esibizione della ricchezza, gli abiti della moglie – una caricatura di ori e volants – come dei figli e perfino dei camerieri che, abituati alla classe dei signori in cui sono stati a servire, sbeffeggiano i padroni nuovi ricchi. E’ poi il linguaggio usato dalla moglie – donna Filomena – a suscitare il riso, dei camerieri e soprattutto del pubblico che se la gode ascoltando gli strafalcioni della donna che ha voluto sostituire al suo secco dialetto napoletano un italiano improbabile. Anche la figlia, bruttina e sciapa, ha trovato un fidanzato, un finto americano della provincia campana che tende a sistemarsi con un danaroso matrimonio. L’unico a essere rimasto come prima, abiti sdruciti compresi, è Pasquale. Che non si gode quella ricchezza tanto ambita, perché la profezia di Dante è stata che lui morirà secondo le indicazioni da lui date in rapporto ai numeri del lotto che hanno portato alla vincita: dopo tre mesi dal giorno in cui Pasquale compirà 52 anni, alle tredici precise, morirà. Il contrasto fra la gioia menefreghistica dei familiari nei confronti del povero padre di famiglia e i suoi lamenti costituisce l’elemento portante di tutto il secondo tempo, che si sviluppa in alternanza fra gli strafalcioni di donna Filomena, le intrusioni maldestre del pretendente della figlia e le recriminazioni di Pasquale per la vita che sta per abbandonarlo: segno dunque che l’esistenza è irrinunciabile anche quando pare invivibile attraverso il disamore dei parenti e la loro attesa sfrontata a che il povero padre se ne vada. La trama lieve è tuttavia soltanto un pretesto per offrire, di Eduardo, sapienti espressioni attorali; Luca De Filippo ne ha ricevuto una pesante eredità, che è evidente – a noi attenti ai suoi sforzi – lui cerca di rispettare mantenendosi da una parte fedele e dall’altra cercando sue strade espressive, sue modalità di comunicazione più personali. La maschera che si crea per esprimere il suo stato d’animo, tragico e perfino grottesco, è irrealistica, tendente alla recitazione espressionistica, moderna. Come i lamenti che emette, guaiti e miagolii più che voce umana. Ma i tempi, giustamente, sono quelli originali. Come quando, seduto in poltrona aspettando la fatidica ora della morte annunciata, Pasquale parla di delirio e gli altri che lo attorniano gli chiedono che cosa significa. Non sapendo esprimerne il concetto, nella sua semplicità popolana, Pasquale mostra di spaventarsi per la vista di un enorme gattaccio nero dagli occhi di fuoco che lo fissa con l’intenzione di avventarglisi contro, e tutti si spaventano a quella descrizione pur non vedendo l’animale: ecco che cos’è un delirio! esclama Pasquale dopo una pausa sapiente, e tutti capiscono al volo.  Sono i ritmi con cui si susseguono le battute, i silenzi, le occhiate fra i personaggi a creare la qualità dello spettacolo, in cui la vicenda è pretesto a mostrare una sequela di caratteri la cui varia umanità sciorina il suo peggio. Ma naturalmente c’è la vittima designata, il capro espiatorio di antica memoria a mostrare sotto la comicità di sapore popolare una trama oscura che apparenta il giocoso testo alla tragicità greca. Sicuro di aver passato impunemente l’ora della sua morte annunciata, il povero Pasquale, che si accinge a gustare i gustosi piatti preparati per il pranzo del suo funerale, apprende con terrore che gli orologi dei suoi familiari sono tutti avanti, l’ora precisa è scandita dal medico arrivato a constatarne lo stato di salute, e quell’ora fatidica deve ancora compiersi. Il sipario si chiude sull’espressione di stuporoso terrore che si dipinge sul volto del protagonista. Armando Pugliese ha sostenuto brillantemente l’intero spettacolo con il gusto del grottesco che spesso caratterizza le sue regie. Carolina Rosi – donna Filomena – si trasforma da accanita moglie partenopea in un personaggio che ricorda Miseria e nobiltà nell’eloquio finto-raffinato. Il gioco dello storpiamento è antico, Goldoni nelle sue “comiche” de La locandiera ne offrì un bel saggio. Paola Fulciniti si cala nella sua serva-amica di famiglia con slanci che ricordano Tina Pica: c’è molto, in questo ben delineato personaggio, della cameriera fidata di Filumena Marturano, ma il segno qui è rivolto al grottesco. Nel complesso ci pare un’operazione di recupero che da un lato attiene alla ricostruzione di un percorso di Eduardo a cui mancava una parte della sua produzione – quella più legata a stilemi comici, di derivazione antica -, mentre da un altro lato ci appare come un gioco teso ad attrarre un pubblico disorientato oggi dalla mancanza di un teatro a tema, che parli, in chiave di metafora, della nostra società, come sempre ha fatto il teatro nei millenni.