TANTE FACCE NELLA MEMORIA

tante facce nella memoria - foto .04

a cura di Mia Benedetta e Francesca Comencini
testi liberamente tratti dalle registrazioni di Alessandro Portelli
regia di Francesca Comencini
con
Mia Benedetta, Bianca Nappi, Carlotta Natoli, Lunetta Savino,
Simonetta Solder, Chiara Tomarelli,
costumi Paola Comencini
Produzione Teatro Stabile d’Abruzzo
in collaborazione con l’Associazione InArte
Roma, Teatro Argentina, 15 marzo 2016

Maricla Boggio

Un evento questo genere suggerisce alcuni interrogativi.
Una voce fuori campo avverte, prima dell’inizio, che non si tratta di uno spettacolo teatrale, bensì di una serie di testimonianze tratte da registrazioni a persone che testimoniano del loro vissuto.
Sono sei storie di donne che hanno avuto un rapporto – di madri, di sorelle, di figlie, di militanti partigiane – con i martiri delle Fosse Ardeatine; donne di cui non si è avuta notizia, che hanno consumato il loro dolore nel silenzio, ignorate dalle celebrazioni ufficiali. Un lavoro giusto, quello di averle trovate mettendo in risalto questa forma di sacrificio, soltanto in pochi caso riconosciuto attraverso una medaglia, d’oro o d’argento, ma in sostanza indipendentemente dalla sofferenza sopportata e più spesso attribuita a un comportamento di militanza.
Questo “non teatro” si fa poi teatro attraverso la regia di Francesca Comencini, che assegna quindi alla dimensione teatrale il compito di rendere teatrale la materia, in ciò egregiamente supportata da sei atrici di forte e varie espressività, che danno vita ai caratteri, popolani o intellettuali, schivi o esternati delle sei donne.
Si tratta allora di un teatro in cui la parola risulta filtrata prima di tutto dalle registrazioni che Alessandro Portelli ha scelto, lui stesso o con la regista, poi dall’apporto registico, poi dall’interpretazione. Diverso sarebbe stato aver ascoltato/visto le vere protagoniste filmate; allora potevamo dire che si trattava di documenti e non di teatro. ma il teatro può anche servirsi di un non teatro per esistere in una forma attraente e anche, in questo caso, di documentazione storica e sociale.
Dalle semplici riflessioni di alcune di queste donne emerge poi una domanda, se fosse stato davvero giusto, e necessario, che si realizzasse l’attentato di via Rasella, che qui viene presentificato attraverso la partigiana Carla Capponi medaglia d’oro. La risposta segue subito alla domanda: era giusto perché noi eravamo ormai in guerra con i tedeschi che prima erano nostri alleati, quindi i tedeschi a Roma erano degli invasori, quindi li si doveva abbattere in ogni modo fosse stato possibile. Ma una sensazione di disagio permane, dopo queste riflessioni, anche se poi tutto l’orrore dell’eccidio, e lo strazio delle donne e dei parenti viene descritto con efficacia conturbante, in quello scoprire le membra disfatte dei propri cari a cui la pietà di una sepoltura viene a lungo negata dopo la morte.
Un’operazione di questo genere ha i suoi pregi, ma dovrebbe essere associata a qualche sviluppo, che consenta non soltanto al documento di farsi forza trascinante per una ricerca di valori trascurati. Dovrebbe nascerne una drammaturgia, che dei documenti si avvalga per iniziare un percorso metaforico di approfondimento e superamento.