TROVARSI

di Luigi Pirandello

 

adattamento e regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi

 

con

Mascia Musy

Angelo Campolo, Giovanni Moschella, Ester Cucinotti, Antonio Lo Presti,

Marika Pugliatti, Monia Alfieri, Luca Fiorino

 

Scene e costumi di Mela Dell’Erba

Disegno luci di Maurizio Viani

 

Teatro di Messina

 

Teatro Eliseo, Roma, 6 novembre 2012

Nell’attuale panorama di spettacoli in cui, se viene affrontato un testo di autore classico – e Pirandello ormai può considerarsi tale -, lo si ritrova spesso utilizzato come pretesto per comode e personali rivisitazioni, è di piacevole riscontro assistere a questo “Trovarsi” che i due adattatori e registi Enzo Vetrano e Stefano Randisi hanno messo in scena, debuttando in prima assoluta all’Eliseo di Roma.

Gli autori hanno immaginato una sorta di momento successivo alla vicenda, una quasi realistica – o sognata? – “visitatio sepulcri” –, da parte dell’Attrice ormai avanti negli anni, al faro dove, interpretando una focosa affermazione del giovane Elj  – in fuga dalla vicenda amorosa con lei –  che non tornerà mai più sulla terraferma, essi in quel faro lo collocano, autorecluso e fedele alla promessa.

Gli anni placano i furori, e Donata percorrendo una sorta di scala-via crucis appena accennata nell’evanescenza di una scenografia sempre rivolta ad accennare con la vaghezza del sogno ambienti ed esterni, va a trovare l’antico amante, e, in questo momento forse soltanto fantasticato, ripercorre l’intera vicenda.

Donata diventa così la fonte di ogni sviluppo, incentrando su di sé il racconto che Pirandello con estrema delicatezza creò per Marta Abba, e di cui più volte scrisse nelle lettere a lei, valutando il sacrificio di un’attrice che come lei volesse raggiungere le vette estreme dell’arte trovandosi così nella necessità di rinunciare all’amore che spetta ad ogni donna. Superando la mentalità maschile dell’epoca, Pirandello si immedesima nel tormento dell’attrice, lui stesso avendo rinunciato a farne la sua amante, per non umiliare a mediocre impegno quell’assoluto che non tollera condizionamenti e condivisioni.

Il nodo drammatico – in questo adattamento – è messo in risalto subito, trapiantandolo dal terzo atto, a iniziare la complessa rimembranza di Donata: esso è rappresentato  dal biglietto di Elj, giovane attraente quanto all’oscuro  da ogni elemento culturale e ancor più di teatro, che non ha sopportato di vederla recitare una parte di donna amante, rivedendo nei suoi gesti una passione che credeva soltanto riservata  – e nuova – per sé. Quel tendere da parte di Donata, davanti a uno specchio di cui vediamo soltanto il contorno – simbolo di una toilette da camerino –, il biglietto fatale dicendone con voce sfranta le terribili parole  “Non resisto più”, condensa tutta la vicenda tingendola fin dall’inizio di un presagio distruttivo.

E’ da questa sofferenza che Mascia Musy trova per lo svolgimento dell’intero dramma quel tono di accorata ricerca di sé, anche nello stupore della scoperta dell’amore mai provato prima, che sente nascere per il giovane incontrato nella casa della sua antica compagna di scuola in una breve vacanza da una affaticante tournée. Ed è una sofferenza presaga, perché anche nel momento della scoperta dell’amore emerge il senso dell’impossibilità, la premonizione, dietro la felicità, di una imminente frantumazione.

Chi crea una temperie di inafferrabile capacità di introspezione, di misterioso fascino indagatore a cogliere l’ansia di una volontà di esistere pienamente, con purezza e dignità, è il personaggio creato da Mascia Musy: con lievi gestualità che restano sospese nell’aria a cercare significati al di là del dire, con spezzature vocaliche che paiono suscitare echi e suggerire parole nuove, questa attrice che senza rumore svolge un suo percorso di interpretazioni singolari, toccando classici e moderni, personaggi teatrali e filmici, pare davvero, quando è in scena, diventare creatura di invenzione.

Il contorno altoborghese del dramma pirandelliano viene liberato, in questa versione, di alcuni personaggi e di chiacchiere salottiere senza soffrirne, perché è reso essenziale il nucleo drammaturgico che rivela la sua tenuta di modernità: se all’epoca della  stesura del dramma – 1932 –, contava anche una certa morale che confinava la sessualità al matrimonio, in questa attuale realizzazione è il rapporto arte-vita a farsi ancora più in primo piano, è la mancanza di capacità di metafora a segnare l’impossibilità da parte di Elj a capire la rappresentazione teatrale della vita afferrandone in maniera autistica il senso, mentre è di Donata il trascendimento dell’azione in forma simbolica. Da qui la necessità della scelta drastica fra vita e arte che l’attrice “ritrovatasi” non stenta a operare in favore del teatro. Altro ancora in questo spettacolo risulta simbolico, dal rapporto femminile/maschile che oggi risulta sfumato, al discorso arte/vita che ci stiamo abituando a sentire come un intreccio in cui ciascuna delle due “entità” è costretta al sacrificio, fino al tema del mare, che nella versione dei due registi si fa elemento amniotico, contenitore misterioso, anch’esso nodo drammatico che si estende al sacrificio di Elj autoconfinatosi.

Un compatto registro di interpretazioni accompagna lo sviluppo dello spettacolo, in cui soltanto in qualche momento sconfinano un po’ certe scene tendenti al caricaturale dei personaggi di contorno. Con sagacia autorevole il conte zio di Elj, Giovanni Moschella, adempie il compito di ricondurre a ragionevolezza le sventate decisioni degli amanti, mentre è sapiente e materna l’amica d’infanzia Elisa – Ester Cucinotti nel consigliare Donata; aitante il giovane Elj – Angelo Campolo, a cui va il compito di rappresentare con simpatico ardore l’innamorato ignorante di ogni forma d’arte, e teneramente caparbia nella sua cucciolesca attrazione  per Elj la bizzarra adolescente di Monia Alfieri.