ANTIGONE

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di Sofocle

adattamento e drammaturgia Sandro Lombardi

Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi

regia Federico Tiezzi

con

Ivan Alovisio, Francesca Benedetti, Marco Brinzi, Carla Chiarelli,

Lucrezia Guidone,  Lorenzo Lavia, Sandro Lombardi, Francesca Mazza,

Annibale Pavone, Federica Rosellini, Luca Tanganelli, Josafat Vagni,

Massimo Verdastro

scene Gregorio Zurla

costumi Giovanna Buzzi

luci Gianni Pollini

canto e composizione dei cori Francesca Della Monica

movimenti coreografici Raffaella Giordano

video Luca Brinchi e Daniele Spanò

produzione Teatro di Roma – Compagnia Lombardi Tiezzi

Roma, 27 febbraio – 29 marzo 2018

Teatro Argentina,  Roma

Maricla Boggio

Assistendo a “Antigone”, per la regia di Federico Tiezzi, ho avuto l’impressione che questo regista, che apprezzo da anni per numerosi spettacoli, realizzati insieme a Sandro Lombardi che qui firma con lui e Fabrizio Sinisi l’adattamento e la drammaturgia, questa volta si sia staccato dal suo consueto rigore e da una sempre evidenziata rispondenza dello spettacolo al testo, pur essendosi mantenuto fedele al testo circa la sua scrittura.

È la insistita sovrapplicazione di simboli al testo, sovente a distorcerne il significato, senza che se ne abbia un’esigenza dettata da un suggerimento scaturito dalla scrittura.

Dopo un video di una certa bellezza, un po’ alla “Blow up” di Antonioni, dove cadono a pioggia frammenti di statue e templi greci, inizia la rappresentazione.

La prima scena pare tratta da un film di Buñuel. La famiglia di Creonte-Edipo – o quel che ne resta – mangia a un tavolo apparecchiato come in una casa alto borghese, in silenzio e compunzione. Fino a che una giovane donna dai lunghi capelli – Antigone – si alza e con rabbia getta a terra un piatto che si infrange con fragore. Creonte si alza di scatto, buio.

Da adesso in poi, in momenti incalzanti le due ragazze – Antigone e Ismene – parlano del mancato seppellimento di Polinice per una proibizione di Creonte e la vicenda ben conosciuta si snoda con estrema fedeltà – come si diceva – del testo. Ma vi si sovrappone visivamente, e con conseguenti mutamenti di significato, una scelta ben precisa – anche se immotivata tranne che da una fantasia del regista – di immergere le scene che via via si sviluppano in un ambiente da obitorio, dove un gruppo di anziani lava e ripulisce gli scheletri a loro affidati. E questo fanno mentre dicono le battute del Coro: con il risultato che tali battute non sono più a sfondo di commento alla storia, ma di commento tra i membri del Coro, togliendo ad esso quel significato di preveggenza, commiserazione, lirismo o altro che viene loro affidato da Sofocle. Che senso ha, infatti, che le battute vengano lette traendole ad esempio da grossi libri antichi che i vecchioni si passano tra loro leggendo e commentando?

Agli scheletri si aggiungono lettini da obitorio, dove i cadaveri vengono ripuliti e trattati, scoperti e ricoperti da lenzuola. La stessa Antigone, ormai condannata, farà il suo famoso monologo arrivando abbracciata a uno scheletro e lo svolgerà in ginocchio, con ai piedi, come una Madonna addolorata, uno scheletro.

Ci sono scene in cui l’interpretazione è libera da questi elementi sovrapposti, e non si può che apprezzare la nitida profondità di Sandro Lombardi che di questo Creonte fa una sorta di moderno dittatore, padrone della città e spietato anche con i suoi parenti di sangue. Sia con Antigone – una dolce e determinata Lucrezia Guidone -, sia con Emone – Ivan Alovisio, con chiarezza e forza nel dire -, il figlio che nel dialogo serrato con lui rappresenta l’elemento politicamente nuovo, della polis democratica, oltre che l’interprete dei sentimenti rispetto alla ragion di Stato, Sandro Lombardi tiene testa allo spettacolo rimanendo in sostanza non condizionato da simbologie di effetto e facendo emergere tutta la forza ideologica e poetica del personaggio.

A a differenza della coerenza stilistica del regista solitamente tenuta nei suoi spettacoli, qui anche gli attori di contorno si producono in differenti forme espressive, dalla Guardia di Massimo Verdastro, che imprime al personaggio una notevole forza sia gestuale che di linguaggio in una cifra arlecchinesca sottolineata dal costume, al Messaggero di Annibale Pavone che con strambi ritmi e sottolineature racconta la morte di Antigone ed Emone, alla sfrenata performance di Francesca Benedetti che con indomita abilità di rappresentazione fa del suo Tiresia una sorta di Veggente transgender in lamée argentato, capace di far tremare l’ormai meditabondo Creonte.

Il Coro, pur mosso e partecipe, guidato da Lorenzo Lavia, è privo di dimensioni liriche e di tramite al pubblico, rimanendo ancorato a una sorta di partecipazione strumentale di sfondo alla triste vicenda.

La tragedia si conclude con l’apparizione di una squadra di operatori in tuta gialla che con schizzi di un potente disinfettante ripulisce dal sangue il terreno, ultima sovrapposizione all’esigenza di una pulizia che più che dettata dall’igiene è quella del comportamento dettato dalla saggezza.