Enrico Bernard
Il titolo del libro prende spunto da una citazione biblica dalla Genesi (28,12):
E Giacobbe sognò: ed ecco gli apparve una scala
appoggiata sopra la terra e con la cima arrivava al cielo;
e su di essa ecco gli Angeli di Dio che salivano e scendevano.
Un tema ripreso da Elie Wiesel che volle unire il celestiale e il dionisiaco del canto e della musica come strumento di elevazione spirituale e morale:
“Gli angeli quella scala si sono dimenticati di ritirarla.
Da allora essa è rimasta tra noi;è la scala musicale che ci fa ascendere dalla terra al cielo.”
Il termine “scala”, come tutte le parole senza dover scomodare Wittgenstein, assume diversi significati nei differenti contesti in cui viene usato. L’oggetto cui si riferisce, coi gradini o a pioli, è ciò che viene subito in mente. Ma vi è anche, in un più immateriale senso, il concetto di “scala musicale”, quella ad esempio del solfeggio e degli esercizi per l’apprendimento delle correlazioni tra le note. Se poi si vuole pensare alla grande, ecco che, rimanendo nel campo musicale, si arriva come d’incanto al Teatro alla Scala di Milano, che ovviamente non ha nulla a che fare con gradini e pioli, bensì con la famiglia della potente dinastia scaligera di Verona. Ma sulle sue ali dorate, partendo appunto dal concetto di “scala”, passaggio dopo passaggio è lì dove vola la fantasia applicata alla linguistica più o meno strutturale.
Il titolo del “viaggio fra i ragazzi dell’orchestra Quattrocanti di Palermo” di Maricla Boggio ha il potere di concentrare queste varianti semantiche della parola in un’espressione sintetica e sinergica: La scala degli angeli. Titolo non poteva e non può essere più coinvolgente e pertinente di questo: gli angeli sono i bambini che attraverso la musica, il suono corale delle loro voci, quindi la scala musicale, trovano la via della salvezza, la scala per l’uscita dal baratro della miseria culturale, nella forma teatrale, come appunto in un immaginario Teatro alla Scala, dello spazio della rappresentazione e dell’esecuzione. La quale del resto richiede una forte compartecipazione, quindi una socializzazione ed una formazione di un’identità nuova, positiva, multipersonale: uno spazio di aggregazione non solo fisica, ma anche sociale e di conseguenza spirituale: un transfert, una scala tra un’identità e l’altra, ovvero una con-prensione, lo stare insieme che induce alla presa di coscienza della condizione umana condivisa.
La prefazione di Giuseppe Bucaro, anche in questo caso col titolo indicativo delle intenzioni dell’opera, Una musica che salva, spiega infatti che: “L’esperienza dell’Orchestra Quattrocanti è nata nel 2012 in un contesto difficile, non solo dal punto di vista materiale ma soprattutto sociale. Noi crediamo che a ciascuno deve essere data la possibilità di una vita dignitosa, che superi la cultura dominante dello scarto, che guarda agli altri come oggetti da dominare, creando una società lacerata da conflitti e tensioni di ogni tipo. Ogni persona è un grande valore, in sé ed è un grande valore per gli altri, e se noi mettiamo insieme questo valore individuale all’interno di una struttura che crea valore, a questo punto diventa un vero risultato di autentico innalzamento della persona umana.”
Di qui parte la “prova d’orchestra” di Maricla Boggio. Solo che a differenza del film di Federico Fellini in cui i musicisti sono tra loro ostili, divisi, settari, prevaricatori, cattivi impersonando il peggio del carattere degli italiani – per poi ritrovare il senno a catastrofe avvenuta, – il percorso della Boggio verte piuttosto verso l’alto, ossia verso la salvazione che si concretizza e finalizza nel percorso educativo e di formazione, nella presa di coscienza del Sé di ognuno di questi ragazzi strappati alla strada o a una più deprimente realtà.
Maricla Boggio non veste beninteso i panni del disperato direttore d’orchestra felliniano, bensì si intrufola autorialmente nelle vite dei giovani membri dell’orchestra descrivendone con interviste mirate ad illustrare l’esperienza, documentandola sì da un punto di vista sociale, didattico e psicosociale, ma la leggibilità del suo reportage è di livello narrativo godibile come un racconto di vita. In una delle sue inchieste/interviste emerge una citazione:
“Mentre parliamo, le ragazze tirano fuori dalle loro cartelle degli spartiti e li dispongono sul leggio. Il titolo dell’opera è “Guglielmo Tell” di Rossini. Sono parecchi i pezzi che i ragazzi si abituano a suonare, nel corso delle prove. Quasi tutti di musica classica, “L’inno alla gioia”, “Il “canone” bachiano, brani di Mozart, ma anche pezzi più distensivi, che accarezzano l’orecchio dei meno abituati a composizioni complesse.”
„L’Inno alla gioia“ di Beethoven sul testo di Schiller apre le porte ad una considerazione storica. Fu proprio la teoria del Classicismo umanista di Goethe e Schiller a fondare in era moderna il concetto, poi ripreso da Gramsci, dell’arte come strumento di educazione del genere umano. Il sogno dei due geni della cultura tedesca era infatti quello di ingenerare una rivoluzione umana e sociale sotto la spinta degli impulsi positivi dell’arte, così da ovviare alle svolte violente esperite con la rivoluzione francese. Tutto ciò può essere considerato utopistico, sebbene la pratica quotidiana – come questo libro dimostra – insegna che l’arte, in particolare la musica, non è solo strumento di elevazione morale ma anche un atto necessario per la comprensione del Sé e del mondo in cui viviamo: una presa di coscienza insomma di quello che noi siamo e possiamo positivamente essere e diventare con e in funzione degli altri. Insomma, si parla di una funzione di disvelamento, attraverso il suono, della verità.
In questo senso la postfazione scientifica di Francisco Mele illustra la potenzialità del suono nella formazione di un’autocoscienza individuale, umana e sociale in cui “la musica è una forma di rappresentazione simbolica non inferiore al linguaggio”. Scrive infatti Francisco Mele: “Il segnale, a differenza del segno, ha un carattere di intenzionalità perché in esso esiste una forte corrispondenza con l’oggetto definito dai linguisti come referente. La musica partecipa e contiene questi tre elementi – il segno, il segnale, il simbolo -: un rumore senza direzione è un segno; un segnale potrebbe essere letto come un suono organizzato con una destinazione verso qualcuno che sia in grado di ascoltarlo.”
Non gettate via la scala, si intitola una raccolta di saggi del 1975 di Carlo Bernari edita da Mondadori, in cui lo scrittore napoletano in un dibattito con Calvino tratta i rapporti tra forma e contenuto, realtà e fantasia: un avvertimento circa la necessità di un’arte “pura” sì, come la musica, ma sempre ancorata alla vita e alla società, come nel caso di questa “scala degli angeli” di Maricla Boggio.