CIARLATANI

di Pablo Remòn

da Los Farsantes traduzione di Davide Carnevali

regia Pablo Remòn

con Silvio orlando

e con Francesca Botti, Francesco Brandi

Blu Yoschimi

scene Roberto Crea

luci Luigi Bindi

costumi Ornella e Marina Campanale

aiuto regia Raquel Alarcòn

management Vittorio Stasi

direzione generale Maria Laura Rondanini

Roma, 5 marzo 2024

Teatro Argentina

Maricla Boggio

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VICO SIRENE

 

testo e regia di Fortunato Calvino

con Gigi e Ross -Luigi Esposito e Rosario Morra

insieme a

Ciro Esposito, Marco Palmieri,

Luigi Credendino, Mattia Ferraro

musiche originali di Paolo Coletta

scene di Clelio Alfinito

coreografie di Erminia Sticchi

costumi di Francesca Romana Scudiero

disegno luci di Francesco Adinolfi, Ciro Florio Make-up&Hair

assistente alla regia Pina Strazzullo

“Immaginando Produzioni” di Rosario Imparato

Roma Teatro Quirino, 9 marzo 2024

Maricla Boggio

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PA’

drammaturgia Marco Tullio Giordana

Luigi Lo Cascio da testi di Pier Paolo Pasolini

scenografia  Giannii Carluccio

con Luigi  Lo Cascio

regia Marco Tullio Giordana

Roma, teatro Ambra Jovinelli

5 marzo 2024

Maricla Boggio

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4 5 6

scritto e diretto da Mattia Torre

con

Massimo De Lorenzo,

Carlo De Ruggieri

Cristina Pellegrino

e con Giordano Agrusta

Teatro Il Vascello

Roma, 27 febbraio 2024

Maricla Boggio

Il rimpianto per la morte di Mattia Torre si fa sentire anche dove i suoi testi sono stati realizzati da lui e adesso sono deposti nelle mani dei suoi attori, amici fedelissimi che ne seguono le rappresentazioni anche quando non sono in scena loro, ma tra il pubblico.

Quel senso di morte che permane in certi testi, come questo “4 5 6”  adesso in scena al Vascello è un’immagine della società attuale, specialmente un discorso sulla famiglia, fonte di aberrazioni mortuarie, a partire da una morte avvenuta tempo prima, di cui si conserva il simbolo nel sugo di pomodoro che ne tiene in vita l’esistenza evocata dal resto della famiglia, che vive ai confini del mondo, in una valle isolata; ma la valle isolata è anch’essa simbolica perché l’isolamento della famiglia rappresenta il suo modo di esistere, che ha il sapore della morte. Padre e madre litigano in continuazione, il figlio vorrebbe partire, sente un alito di vita fuori di lì, ma viene sconsigliato, imprigionato, blandito. E c’è un’attesa in questi tre personaggi, che aspettano un ospite che darà speranze.

Ma il senso di morte permane nei discorsi, nei rapporti, nel tentativo di sopravvivere nell’attesa di un vita che invece si riafferma come senso di morte nei discorsi dei tre, e nei loro rapporti violenti. Arriverà una sorta di personaggio emblematico, una sorta di santone a cui forse si potrebbe affidare la propria salvezza, ma quello ricevono i tre della famiglia sono i numeri dei loculi acquistati, vanto che rappresenta tutto quello che possono agire di vitale questi morti viventi. E allora si scatena la violenza  repressa dei tre imprigionati nei loro ruoli di famiglia. Si uccidono l’un l’altro, senza alcun ritegno nel desiderio di morte.

La scena, una stanza su cui campeggia una tavola sopra cui dondola un salame che penzola dall’alto, forse simbolo greve del ritmo del tempo; poi una stufa su cui sacralmente si consuma il sugo della nonna, presenza simbolica e terribile nel suo essere priva di connotazione umana. La distruzione totale conclude nel silenzio la lotta portatrice di morte. Peccato che il dialetto che usano gli attori impedisca una comprensione tale da non perdere i significati interni del lavoro, che possiede una sua ampia dignità, in questo inno alla morte di una famiglia attuale. La morte è tornata nelle nostre azioni pubbliche attraverso la guerra, che semina con abbondanza in particolare sui giovani: dopo il Covid che si credeva scongiurato, le ventate di guerra in Ucraina e nella lotta israelo-palestinese accrescono i lutti senza prevederne la fine. Non si può sapere se di rimbalzo o per un’accresciuta violenza autonoma i delitti privati sono aumentati numericamente e come violenza. In particolare, proprio dove la famiglia dovrebbe portare un apporto salvifico, è in essa che si scatena cancellando ogni affetto o legame.

L’ALBERGO DEI POVERI

uno spettacolo di Massimo Popolizio

tratto dall’opera di Maksim Gor’kij

traduzione teatrale di Emanuele Trevi

e con Sandra Toffolatti, Raffaele Esposito

Michele Nani, Giovanni Battaglia,

Aldo Ottobrino, Giampiero Ciccio’

Francesco Giordano, Martin Chishimba

Silvia Pietta, Gabriele Brunelli

Diamara Ferrero, Marco Mavaracchio

Luca Carbone, Carolina Ellero

Zoe Zolferino

scene Marco Rossi e Francesca Sgariboldi

Costumi Luca Sbicca

Luci Luigi Biondi

disegno del suono Alessandro Saviozzi

Roma, Teatro Argentina, 9 febbraio 2024

Maricla Boggio

Il grande affresco di umanità dolente – “L’albergo di poveri” di Maxim Go’kij – è andato in scena al Teatro Argentina per la regia di Massimo Popolizio, che lo ha tratto dall’opera dell’autore russo insieme a Emanuele Trevi per la riduzione teatrale. Con il titolo originale “Nei bassifondi” l’opera, scritta nel 1901 e andata in scena nel 1902, esprimeva quella volontà di denuncia sociale che l’autore coltivava nei suoi scritti. Lo mise in scena in Italia Giorgio Strehler nel 1947 per l’inaugurazione del Piccolo Teatro, cambiandogli titolo, e non per semplice volontà personale, ma offrendo con quel titolo umanizzato la chiave della rappresentazione, di una umanità sofferente e calata nella miseria e nell’abiezione, in cui si avvicendano i personaggi della più bassa umanità, pronti all’alterco e all’invidia, alla manifestazione di un’attrazione che poi si fa violenza, alla prevaricazione che coinvolge perfino la guardia che dovrebbe portare la giustizia tra i litiganti e porta invece il suo livello di corruzione. Sono scene che si alternano o s’intrecciano, che a ben riflettere, sotto l’aspetto della lite o della violenza celano un disperato bisogno di emergere dall’ingiustizia e di essere riconosciuti come esseri umani. Ci sono momenti di pietà, di compassione che lasciano intravedere un minimo trasporto affettivo, ma sono luci che si spengono presto, rivelando l’interesse, la libidine, il furto. Ognuno di questi abitanti ha la sua pena da scontare, l’unico momento in cui si instaura una calma silenziosa è quando viene distribuita la zuppa, che placa per un attimo le prevaricazioni e la violenza. E poi ci sono i vari gradi di potere, anche lì dove la miseria appare livellare le miserie di tutti. C’è il padrone del locale, che ricatta ma a sua volta è ricattato dal ladro che tiene tutti sotto sequestro. E ci sono le donne, ex puttane, amanti del padrone, direttrici di quello squallido luogo in cui anche lì vige la gerarchia del potere. Appare in mezzo a questa folla di disgraziati un personaggio che induce alla speranza di un qualche cambiamento, una sorta prete ortodosso, o di pellegrino in penitenza, lunga barba nera, saio scuro, al collo la conchiglia. Riflette sui personaggi che incontra, dialoga con loro, cerca di vedere se può trarne motivo di cambiamento: ci sarà un paese dei giusti? questa è la ricerca che fa il pellegrino, ma non è mai riuscito a trovarlo, in nessuna carta geografica, e questa impossibilità si impone anche qui, dove non ci sono giusti, ci sono disperati, come quello  che conclude la storia in negativo, il suicidio di un personaggio che avrebbe potuto vivere e dare qualcosa di positivo: l’attore e poeta, che non riesce più a ricordare i versi di una poesia, e con la sua morte cala su tutti il silenzio di una disperazione che cancella anche i momenti che mergono a volte nell’andamento delle scene, in certi improvvisati giochi e duetti, che scompaiono subito nella tristezza generale.

Popolizio è entrato nello spirito del testo con modernità, a cominciare dal canto del personaggio nero che induce a una sacralità inziale, per poi tacere dopo questa nota incoraggiante, e offrendo di ogni scena una sorta di mondo che si presenta per poi essere inglobato nella  grande tragedia di questo albergo dei poveri che più poveri non possono essere.

 

GINGER E FRED

di Federico Fellini, Tonino Guerra, Tullio Pinelli

adattamento e regia Monica Guerritore

e con Alessandro Di Somma, Mara Gentile, Nicolò Giacaleone,

Francesco Godina, Diego Migeni, Lucilla Mininno,Valentina Morini, Claudio Vanni

scenografia Maria Grazia Iovine

costumi Walter Azzini

coreografie Alberto Canestro

light Design Pietro Sperduti

direttore allestimento Andrea Sorbera

Teatro della Toscana, Società per attori,

Accademia Perduta Romagna

Roma, Teatro Quirino

16 gennaio 2024

Maricla Boggio

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