uno spettacolo di Massimo Popolizio
tratto dall’opera di Maksim Gor’kij
traduzione teatrale di Emanuele Trevi
e con Sandra Toffolatti, Raffaele Esposito
Michele Nani, Giovanni Battaglia,
Aldo Ottobrino, Giampiero Ciccio’
Francesco Giordano, Martin Chishimba
Silvia Pietta, Gabriele Brunelli
Diamara Ferrero, Marco Mavaracchio
Luca Carbone, Carolina Ellero
Zoe Zolferino
scene Marco Rossi e Francesca Sgariboldi
Costumi Luca Sbicca
Luci Luigi Biondi
disegno del suono Alessandro Saviozzi
Roma, Teatro Argentina, 9 febbraio 2024
Maricla Boggio
Il grande affresco di umanità dolente – “L’albergo di poveri” di Maxim Go’kij – è andato in scena al Teatro Argentina per la regia di Massimo Popolizio, che lo ha tratto dall’opera dell’autore russo insieme a Emanuele Trevi per la riduzione teatrale. Con il titolo originale “Nei bassifondi” l’opera, scritta nel 1901 e andata in scena nel 1902, esprimeva quella volontà di denuncia sociale che l’autore coltivava nei suoi scritti. Lo mise in scena in Italia Giorgio Strehler nel 1947 per l’inaugurazione del Piccolo Teatro, cambiandogli titolo, e non per semplice volontà personale, ma offrendo con quel titolo umanizzato la chiave della rappresentazione, di una umanità sofferente e calata nella miseria e nell’abiezione, in cui si avvicendano i personaggi della più bassa umanità, pronti all’alterco e all’invidia, alla manifestazione di un’attrazione che poi si fa violenza, alla prevaricazione che coinvolge perfino la guardia che dovrebbe portare la giustizia tra i litiganti e porta invece il suo livello di corruzione. Sono scene che si alternano o s’intrecciano, che a ben riflettere, sotto l’aspetto della lite o della violenza celano un disperato bisogno di emergere dall’ingiustizia e di essere riconosciuti come esseri umani. Ci sono momenti di pietà, di compassione che lasciano intravedere un minimo trasporto affettivo, ma sono luci che si spengono presto, rivelando l’interesse, la libidine, il furto. Ognuno di questi abitanti ha la sua pena da scontare, l’unico momento in cui si instaura una calma silenziosa è quando viene distribuita la zuppa, che placa per un attimo le prevaricazioni e la violenza. E poi ci sono i vari gradi di potere, anche lì dove la miseria appare livellare le miserie di tutti. C’è il padrone del locale, che ricatta ma a sua volta è ricattato dal ladro che tiene tutti sotto sequestro. E ci sono le donne, ex puttane, amanti del padrone, direttrici di quello squallido luogo in cui anche lì vige la gerarchia del potere. Appare in mezzo a questa folla di disgraziati un personaggio che induce alla speranza di un qualche cambiamento, una sorta prete ortodosso, o di pellegrino in penitenza, lunga barba nera, saio scuro, al collo la conchiglia. Riflette sui personaggi che incontra, dialoga con loro, cerca di vedere se può trarne motivo di cambiamento: ci sarà un paese dei giusti? questa è la ricerca che fa il pellegrino, ma non è mai riuscito a trovarlo, in nessuna carta geografica, e questa impossibilità si impone anche qui, dove non ci sono giusti, ci sono disperati, come quello che conclude la storia in negativo, il suicidio di un personaggio che avrebbe potuto vivere e dare qualcosa di positivo: l’attore e poeta, che non riesce più a ricordare i versi di una poesia, e con la sua morte cala su tutti il silenzio di una disperazione che cancella anche i momenti che mergono a volte nell’andamento delle scene, in certi improvvisati giochi e duetti, che scompaiono subito nella tristezza generale.
Popolizio è entrato nello spirito del testo con modernità, a cominciare dal canto del personaggio nero che induce a una sacralità inziale, per poi tacere dopo questa nota incoraggiante, e offrendo di ogni scena una sorta di mondo che si presenta per poi essere inglobato nella grande tragedia di questo albergo dei poveri che più poveri non possono essere.