GIANCARLA FRARE E IL CASTELLO DI APICE – IL LABIRINTO

 

La mostra di Giancarla Frare e il libro “Il Castello di Apice – il labirinto”

Biblioteca Vallicelliana, 19 dicembre 2019 – 20 gennaio 2020

Maricla Boggio

Non so da quanto tempo Giancarla Frare stia ripensando al Castello di Apice, suo luogo d’infanzia intrinseco della memoria presente.

Dal 2015 ha reso concreto quel ricordo, accettando di metterlo fuori di sé e di raccontarlo, con caute parole che tracciano una fiaba, e con impressioni visive che sarebbe riduttivo definire disegni, o immagini.

Perché coinvolgono chi le guarda in una vita che ritorna attraverso di loro. Che si snoda quasi controvoglia dai gesti ampi di Giancarla, pudicamente riducendo a brevi accenni momenti di un’esistenza lontana nel tempo, eppure presente e indelebile nel suo oggi.

Esiste davvero questo Castello, fortezza normanna dell’VIII secolo, in alto a sorvegliare la valle del fiume Calore, nella regione del Sannio; eppure sembra vivere soltanto attraverso la suggestione della memoria.

Sono disegni? Sono pensieri che si concretizzano in distese di colore? Un frammento che emerge da un angolo recondito del Castello forse è residenza di una bambola. Cavalli in rapida corsa fronteggiano la bimba coraggiosa, trattenuti dal massaro, e di colpo diventano segno sulla carta di pietra. Frammento è una terrazza ariosa sulla pianura: un cavallo è arrivato fin lassù, diventando della stessa materia delle mura. L’interno intimo della casa paterna è serie di frammenti. Emergono spezzate dall’uso terrecotte della colazione in cucina. Fissate nello smalto scrostato, occhieggiano le galline del cortile; la bambina Giancarla, tornando dall’asilo delle monache, andava forse cercando l’uovo appena abbandonato sull’aia.

La casa a cui tornare dopo le ore dell’asilo è sicura, anche se la circondano luoghi ostili per antiche tragedie; incendi rovinosi appiccati da un padrone impazzito hanno rischiato di annientare fastosi velluti amaranto, ma quanto è accaduto ritorna nell’alveo della favola, e l’uomo cattivo è stato portato via. Sono rassicuranti i massi arcaici di cui è composto il Castello; le sue mura disfano le forme, sono le stesse montagne a diventare abitazione, e dentro di loro echeggiano grida di comando. Il Maresciallo è appena una figura da esercito di soldatini, ma la sua grassa moglie si impone, insieme ai nove figli sempre affamati, e Giancarla gareggia con loro sfidandoli a suon di fette spalmate di succulenti dolciumi.

Il verbo che racconta si fonde con i fogli da cui emergono le immagini del mito infantile.

Uccelli veri e uccelli dipinti, entrambi vitali, anche se spezzati. E poi, ammassi dai colori cangianti, come li vedeva la bimba Giancarla mutare dall’aurora al tramonto. Che altro, che altro ancora, in quel ricordare e rivivere? Tutto emerge dai fogli giganteschi sfiorati dalle mani di Frare resa adulta dagli anni, ma in quel tocco tornata all’epoca in cui così vedeva e sentiva.

Il Castello ricorda Federico II dall’architettura perfetta, ma il disegno è di una bambina a cui importa segnalare la casa di suo padre capo della Guardia Forestale e le camerette della famiglia del Maresciallo, lo spazio occupato dal massaro con le sue bestie selvagge, le chiare stanze castissime delle monache crudeli con i bambini disobbedienti, un mondo intero a cui niente manca per chi vi è nato. Labirinto, lo chiama Giancarla; lei vi si orienta facendosi beffe delle difficoltà nel percorrerlo, la attira anzi quella paura di perdersi che finisce sempre, come le favole, a concludersi fra le braccia della madre.