IL VIZIO DELLA MEMORIA

volume edito da Bulzoni per la SIAD

con testi di

Annabella Cerliani, Fortunato Calvino,

Maricla Boggio e Massimo Roberto Beato

di Enrico Bernard

Se la narrativa ha “scoperto” l’impegno, la dimensione politica, ossia quello che viene definito engagement  a partire dal protoneorealismo dei primi anni Trenta di Alvaro, Moravia, Bernari, Zavattini e poi Calvino anche  sulla spinta delle teorie gramsciane, è innegabile che il teatro sia per sua stessa natura un atto “politico” fin dalle sue arcaiche origini.

Malfamati, perseguitati, persino torturati o impiccati come racconta Verga nella novella Quelli del colera i teatranti sono stati sempre portatori di verità, di luce e di critica della società, dei costumi, delle religioni e del potere.

Tuttavia questa funzione critica della realtà, così forte da assumere una carica politica, non si è sempre potuta esprimere a voce alta, non sempre insomma i Comici e i drammaturghi  sono riusciti a raggranellare  forza e coraggio per cantarla tutta. E’ quanto sostiene Eduardo ne L’arte della commedia  del 1965 in cui il capocomico Campese difende gli autori italiani dall’accusa di “mancanza di coraggio” avanzata dall’Eccellenza, il Prefetto che si picca di sapere di teatro:

Eccellenza, secondo me l’autore ha paura di scrivere  […] Una paura perniciosa, costituzionale, congenita… che accompagna la gente di teatro dalla loro nascita ad oggi. I comici dell’arte, quelli che recitavano a braccia, per le loro battute sferzanti contro la borghesia, l’aristocrazia, contro i Governi, furono sempre perseguitati, costretti a fuggire da un paese all’altro… spesso messi in prigione, alla tortura e persino impiccati. In Inghilterra ci deve essere ancora una corda che mise fine alle tribolazioni di un Arlecchino. Eccellenza, se non c’è la censura, c’è l’autocensura, a cui l’autore deve spontaneamente sottostare[…] Qualche autore coraggioso non è mancato […] Perché l’autore deve essere coraggioso? Se ci vuole coraggio per dire una verità in  teatro, vuol dire che nell’aria qualche cosa che fa paura ci sta.

Questo qualcosa che fa paura nell’aria spiega ad esempio  perché il teatro italiano, in apparente contraddizione con la sua vocazione politica iscritta nel suo dna, nel dopoguerra è stato, a differenza del cinema e della letteratura,  a lungo avaro di testi  sulla mafia.  Con due grandi eccezioni ovviamente: Leonardo Sciascia de L’onorevole e Giuseppe Fava, assassinato dalla mafia davanti al teatro a Catania dove andava in scena il suo testo L’ultima violenza.

Naturalmente il ritardo in tema di impegno civile va letto, e in gran parte giustificato, sulla base della stretta dipendenza della produzione teatrale dal placet (come spiega benissimo Eduardo) e dalla sponsorizzazione delle autorità politiche, spesso quelle locali, cioè assessorati e caserme di polizia e vigili urbani per i permessi, finanziamenti e quant’altro. Era lì quel  tappo o “filtro”, meglio dire quel “sasso” in bocca al teatro che impediva o rendeva quanto meno “complicato” urlare nelle piazze la parola “mafia”.

 

Molto però è poi cambiato all’indomani degli omicidi di Falcone e Borsellino che hanno dato una scossa anche alla drammaturgia nazionale che finalmente ha recuperato il suo spirito critico, la sua valenza in chiave politica. Così in un venticinquennio dal 1995 fino ad oggi si è assistito ad un costante aumento della produzione drammaturgica incentrata su temi scottanti, critici per la nostra società: corruzione, mafia, degrado.

Non si vuol certo affermare che prima mancassero atti di coraggio, produzioni a rischio, testi fortemente di denuncia e in questo senso altamente “suicidi” dal punto di vista del successo, con le dovute eccezioni come ad esempio Dario Fo.   Ma come dice Eduardo si è trattato di casi sporadici, malvisti e malsopportati ai piani alti, certamente ostici per la distribuzione nazionale che non voleva digerirli avendo anche presente l’ostilità che  simili proposte avrebbero incontrato presso assessorati, istituzioni e centri di potere politico-culturale orientati più a protezione di esperienze sperimentali, minimaliste, intimistiche o televisive.

Ho sempre condiviso queste riflessioni con un gruppo di validi colleghi ai quali sono profondamente legato da amicizia e stima. Da decenni ci battiamo insieme in associazione e separatamente nei nostri lavori per ridefinire la questione del teatro politico o altrimenti detto engaged  e riproporlo in un momento storico in cui si sente particolarmente bisogno di una nuova agorà politica e teatrale in grado di garantire le risorse culturali per una ripartenza o di un nuovo progetto per il  futuro della nostra società. Ed è in questo ambito che i temi sociali, storici, politici e – corro il rischio di usare un termine ormai fuori moda – ideologici vengono diffusamente alla ribalta, finalmente in piena libertà di critica.

La raccolta appena edita da Bulzoni nella collana della SIAD dedicata agli autori italiani è importante perché accende i riflettori su alcuni protagonisti dell’engagement nella drammaturgia italiana contemporanea. I quattro autori dell’antologia sono Annabella Cerliani, Fortunato Calvino, Maricla Boggio e Massimo Roberto Beato, sono espressioni di diverse generazioni ma soprattutto coesi a rappresentare uno spaccato non dirò sconosciuto, ma sicuramente misconosciuto della storia italiana di quasi un secolo: il cambiamento epocale – come si legge nella prefazione – avvenuto in pochi decenni in una società in cui sono state le donne a trascinare gli uomini a nuove forme di collaborazione e di solidarietà.

Artefici di questa tensione etica che parte da lontano, fin dai loro primi lavori, sono senz’altro Maricla Boggio e Annabella Cerliani che vantano una vasta teatrografia di temi impegnati dedicati agli umili e offesi, ai deboli, alle situazioni di riscatto umano e sociale.

Sul filo della provocazione politica e intellettuale scorre allora  il testo ironico di Annabella Cerliani. Uguaglianza e Libertà,  che apre una discussione impersonando gli ideali di Eguaglianza, Speranza e Libertà come povere anime in pena in un mondo che invece è alla ricerca di ben altri valori materiali e prosaici come sostiene Achille che si presenta con la valigia con su scritto souvenir d’Italie  e apostrofa la recalcitrante signora Eguaglianza in vena di idealismi e di chimere politiche, sogni nati appunto dalla speranza seguita alla liberazione dal nazifascismo: Ma di cosa ti preoccupi, le cose vanno meglio per tutti, c’è lavoro e benessere. Più la gente consuma, compra e spende e più va bene per tutti. Presto avremo anche una casa nuova e anche tua figlia potrà studiare come i miei.

Annabella Cerliani dà quindi voce al paradosso storico  che vide, al tempo di Napoleone, la borghesia italiana innorridirsi di fronte all’imposizione del teatro giacobino che propagandava gli ideali rivoluzionari di Eguaglianza e Libertà. Ancora oggi la borghesia italiana, all’indomani della liberazione dal fascismo, sembrerebbe dunque disposta secondo la Cerliani ad azzittire la signora Speranza che nasce dall’esigenza di una società più giusta, proprio come fecero i trisavoli di fronte alla espansione degli ideali giustizialisti della rivoluzione francese. E il paradosso si raddoppia come in un gioco di specchi, rimandi e richiami, visto che la denuncia supportata da sfiziosa ironia trova il suo habitat naturale proprio sul palcoscenico, quindi in quel media  sociale, il teatro, che all’epoca della propaganda giacobina aveva spaventato a morte la borghesia italiana.

Il testo di Maricla Boggio, autrice narra per visioni e suggestioni la storia di Maria Occhipinti soprannominata appunto Nun si parti !  la quale  fu protagonista di un drammatico episodio poco conosciuto della recente storia italiana. Siamo nel periodo immediatamente successivo all’Armistizio. Il popolo festeggia la fine – almeno così crede e spera – della guerra e l’imminente ritorno dei soldati e figli superstiti, quando invece arriva la doccia fredda: il governo Badoglio ordina un nuovo arruolamento per creare un reggimento che affianchi le truppe alleate nell’Italia occupata dalle forze germaniche. L’intento è quello di poter tirar fuori la monarchia sabauda dalla vergogna della guerra al fianco del nazismo e di utilizzare qualche centinaia di morti sul tavolo delle trattative di pace.

Ma il popolo non ne può più della guerra e delle sofferenze: i giovani si rifiutano di partire, Nun si parti ! appunto: si ribellano, distruggono le cartoline rosa del richiamo militare, scendono in piazza, si oppongono insieme a madri, figli, spose all’arruolamento forzato. Una sorta di  Quattro giornate di Napoli all’incontrario, poiché sotto l’occupazione tedesca i rastrellamenti dei giovani servivano ad arruolamenti nella Repubblica Sociale o nelle fabbriche di guerra tedesche.  Nella rivolta spicca per coraggio la giovane Maria Occhipinti, ventitreenne sposata e incinta di cinque mesi che si stese a terra davanti alle ruote di un camion militare opponendosi alla nuova leva di giovani siciliani.

Non fu – beninteso – una ribellione contro il nuovo ordine del “piccolo Re” all’indomani del ribaltamento delle alleanze che seguì alla caduta di Mussolini: si trattò piuttosto  dell’espressione di una volontà di pace, di un grido di dolore contro le sofferenze patite, del desiderio di un ritorno alla normalità della vita senza più sangue, devastazioni, morti. Le forze politiche del tempo non compresero la vera natura di quei moti popolari: democristiani e comunisti impegnati nella Resistenza non vollero capire il significato dell’insubordinazione che rasentò l’insurrezione, il messaggio di pace che si levò dal popolo siciliano fu soffocato dalla necessità di combattere il nazifascismo ovunque e comunque. Fu messa così in atto una  repressione di quella che fu interpretata come un tradimento dei nascenti ideali della nuova Italia. Maria, soprannominata Nun si parti !, fu riunchiusa insieme a donne di malaffare, povere vittime della povertà, di maternità indesiderate e sconvenienti o ad altre ritenute responsabili di reati, in un misero carcere femminile tenuto dalle suore che fungevano da bieche guardiane.

Dal carcere dove resta per alcuni durissimi anni – fino al 1947 perché per uscire deve aspettare un’amnistia che tarda ad arrivare per complicazioni burocratiche ed anche per una latente volontà di far pagare cara quella che venne considerata a lungo una diserzione – Maria si racconta  evocando i ricordi, le emozioni esprimendo tutto il senso di sconfitta e allo stesso tempo di rivalsa di una donna tra le donne, straniera nella sua stessa patria, perseguitata e incompresa.

La resistenza negata di Fortunato Calvino si richiama al romanzo di Patroni Griffi  La morte della bellezza, in cui per la prima volta viene messa in luce  la partecipazione alla resistenza degli omosessuali. E i richiami portano anche al film di Loy e Bernari Le quattro giornate di Napoli, in cu viene messa in luce la partecipazione alla resistenza da parte delle donne e degli scugnizzi. Nel testo di Calvino scrive Maricla Boggio:

Le protagoniste della Napoli dei bassi parlano con la forza incisiva del loro linguaggio – si legge nella prefazione – dimostrando di non essere da meno degli uomini nel coraggio di combattere; sciolto dalla limitazione della formula borghese, l’amore nei suoi diversi aspetti è mostrato alla luce del sole; vi prendono parte anche i femminnielli, una categoria ai margini della società, che della donna esprimono l’aspetto estetizzante, ma ne assumono tutta la carica passionale dei sentimenti, contribuendo a liberare dal nemico la città.

Come si accennava prima il tema della mafia è finalmente esploso nella drammaturgia italiana dopo la tragica morte di Falcone e Borsellino, i quali sono peraltro diventati protagonisti di molti testi a loro ispirati. Tanto per citarne alcuni, gli autori della collana degli Assoli contro la mafia, due volumi con opere di Maria Pia Daniele, Elisabetta Fiorito, Maricla Boggio, Fortunato Calvino, Enrico Bernard. Senz’altro originale dunque il tema affrontato nella raccolta Bulzoni SIAD da Massimo Roberto Beato Donne di mafia. Si tratta di un titolo che va ben interpretato poiché non si riferisce alle donne che in molti casi hanno sostituito i mariti arrestati al vertice delle organizzazioni criminali, bensì le donne che si ribellano alla violenza mafiosa. Decidono di digiunare, per “fame di giustizia”, facendosi in piazza esempio della necessità di un mutamento della società.