ARLECCHINO SERVITORE DI DUE PADRONI

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di Carlo Goldoni

regia Valerio Binasco

con

Natalino Balasso Arlecchino, Fabrizio Conti il Dottore, Michele Di Mauro Pantalone, Lucio De Francesco Servitore, Denis Fasolo Silvio, Elena Gigliotti Clarice, Carolina Leporatti Smeraldina, Gianmaria Martini Florindo, Elisabetta Mazzullo Beatrice, Ivan Zerbinati Brighella

Scene Guido Fiorato

Costumi Sandra Cardini

Luci Pasquale Mari

musiche Arturo Annecchino

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Roma, Teatro Argentina, 11 febbraio 2020

Maricla Boggio

Questo spettacolo è stato prodotto dal Teatro Stabile di Torino che, a quanto si legge, lo ha gestito da sé. Un caso raro, dal momento che di solito gli spettacoli dei Teatri Stabili riuniscono più produzioni insieme. Si tratta di un elemento positivo, una responsabilità tutta sulle spalle del teatro che decide un progetto, e lo porta poi in giro.

Non si tratta del solito testo straniero, che ha acquisito fama all’estero e lo si propone qui con la certezza del successo. Né si tratta del solito classico rivisitato, magari anche italiano, che punta sulla conoscenza generale, foriera anch’essa di tranquillo successo.

Valerio Binasco ha affrontato un testo affermato da decenni e in continuo proseguimento di rappresentazione nella forma estetica impressagli da Giorgio Strehler, ma saggiamente lo ha messo da parte, evitando confronti. Per rispetto al Maestro, ma anche per desiderio di verificare se quell’Arlecchino ha un suo valore intrinseco, al di là delle clamorose invenzioni strehleriane condivise dall’altrettanto favoloso Ferruccio Soleri nel ruolo del famoso servitore di due padroni.

Mettendo da parte lo spettacolo cult e la Commedia dell’Arte, da cui non si può prescindere se si vuole affrontare, anche in tutta libertà, “quell’Arlecchino”, Binasco sceglie una strada sghemba. Quella del personaggio che si annida nelle pieghe delle battute di Arlecchino, più che nella bravura da giocoliere che gli è stata aggiunta al di là delle azioni. Vi individua il livello sociale, la dimensione gregaria che gli deriva non soltanto da una sottoclasse contadina – arriva da una cittadina periferica –  cui appartiene, quanto da una pochezza umana, di persona che non sa neanche leggere – forse lavorava nei campi quando gli altri andavano a scuola – e che ha patito la fame e perciò non può arrivare a ragionamenti che soltanto chi si è nutrito può raggiungere.  L’Arlecchino di Natalino Balasso fa ridere ma che non può prescindere dal compiangerlo. Il teatro poi trasforma ciò che è pianto in riso, e Balasso riesce nell’impresa, centrando su di sé lo spettacolo. Che è arricchito da un vivace va e vieni di quinte – ingegnoso marchingegno di Guido Fiorato – che si alzano, si abbassano, si intrecciano con finte porte che girano da una parte e dall’altra, denunciando il movimento dei personaggi dall’interno all’esterno e viceversa. E ci sono poi tutte le scene che in più canovacci si intrecciano in quello che risulta poi il copione: liberate dalle strutture tradizionali dell’antica “commedia dell’arte” che permangono anche nell’Arlecchino strehleriano, qui nessun personaggio porta con sé l’abito che lo connota, tranne in qualche modo Clarice  – la giustamente strepitante Elena Gigliotti – che insieme al suo Silvio – Denis Fasolo inaspettato nella voce tonante – danno qualche cenno di quei duetti di “sdegno e pace” che appartenevano al teatro più antico di Goldoni e alla tradizione dei dialoghi fra innamorati. Si insiste molto sul travestimento di Beatrice – una efebica Elisabetta Mazzullo in atteggiamenti stilizzati nel suo essere uomo -, che va alla ricerca del suo innamorato Florindo – Gianmaria Martini intimidatore del povero Arlecchino, ma poi fremente nell’amore ritrovato -: qui la dimostrazione della sua femminilità da parte di Beatrice alla disperata Clarice fedele  a Silvio ha il gesto eloquente dei pantaloni calati, e suscita la gioia della ragazza liberata dall’incubo di perdere il suo amato. Il sapore di una borghesia povera e tirchia perché povera percorre l’intero spettacolo, come una sorta di nascosta denuncia alle condizioni sociali di un’epoca grama. Quella che intravede Binasco è la faccia di una medaglia che si può leggere anche in questa dimensione che si potrebbe, con uno sforzo epocale, definire realista.

Nei loro ruoli, padri, servitori e cameriera conservano gli atteggiamenti e i toni dei loro tradizionali personaggi, con una più libera utilizzazione del linguaggio e dei gesti, a cominciare dal Pantalone di Michele Di Mauro, autorevole e addirittura crudele nei confronti della povera Clarice frustata per indurla all’obbedienza, Ivan Zerbinati  – astuto Brighella fedele a Beatrice – , Fabrizio Contri, che imprime al suo severo genitore di Silvio toni da sceneggiata napoletana, insieme al devoto servitore di Lucio De Francesco e alla impositiva e coraggiosa Smeraldina di Carolina Leporatti.

Che dire del pubblico, in perenne risata ad ogni azione di Balasso, che fa sue le gags tanto ricordate da tutti, e le piega ai mezzi suoi, al suo piccolo mondo sconnesso?