E’ ARRIVATA LA FELICITA’

di Peppino De Filippo

 

con Luigi De Filippo

Vincenzo De Luca, Giorgio Pinto, Riccardo Feola, Stefania Ventura, Michele Sibilio, Stefania Aluzzi, Fabiana Russo, Paolo Pierantonio

regia di Luigi De Filippo

Teatro Parioli, Roma, dal 24 aprile all’11 maggio 2014

Maricla Boggio

Due atti unici scritti alla fine degli anni Cinquanta riportano a un genere di comicità del teatro dei De Filippo, e in particolare di Peppino, che richiama il teatro precedente la seconda guerra mondiale, fatto di bozzetti paesani, intessuti di teneri sentimenti familiari, di affettuosi contrasti generazionali, di difficoltà esistenziali presto superate nel lavoro felicemente trovato; ma a questo mondo paesano si innesta una nota di amarezza, uno sconforto carico di delusione per la scomparsa di una dimensione serena.

L’incertezza del domani e anche quella dell’oggi pervade le composizioni teatrali, riscattandole dal bozzettismo e facendone dei quadri intinti di una forte connotazione straniata. E’ quella epicità che prescinde da Brecht ed è tutta nostra, in forme antesignane che si richiamano al teatro dei pupi e alla sceneggiata.

Con differenti sviluppi si presentano così questi due testi  – “Aria paesana” e “Don Rafele il trombone” – accorpati sotto il titolo, ironico assai, “E’ arrivata la felicità”, che Luigi De Filippo ha messo in scena con la sua compagnia, che richiama quella di suo padre nella varietà dei ruoli e nel numero degli attori, disposti a seconda delle esigenze a far da coprotagonisti o ricoprendo personaggi laterali, nella disciplina che è stata poi anche di teatri molto diversi da questo, ma egualmente improntati a una disciplina di mestiere come quello del Piccolo Teatro di Milano nelle regie di Giorgio Strehler.

“Aria paesana” gira intorno alla ventata di americanismo del primo dopoguerra. In un paesino della provincia campana, rimasto a valori familistici tradizionali, il giovane nipote di una coppia di anziani zii che lo hanno allevato imperversa con i passi delle nuove danze insieme a un amico fannullone, in attesa di una lettera di assunzione a Milano. Lo zio, che pur considera il nipote lo scopo della sua vita, lo critica in continuazione per quella sua smania di modernità e gli impedisce perfino l’uso di una grammofono da cui si diffondono le musiche di Gershwin. La zia vuole accasarlo con una figlia di una signora amica per tenerlo legato al paese – la ragazza è anche sorda e allevata dalle Suore -, ma la lettera di assunzione affretta la partenza e il giovane se ne andrà accompagnato dalle raccomandazioni della zia e dal consenso dello zio. Il quale, appena il ragazzo è partito, ascolta dal grammofono quelle musiche americane che prima lo infastidivano e che adesso lo confortano per il futuro  che il nipote rappresenta.

Più netto e amaro, di un’ironia autoreferenziale espressione della miseria atavica dei personaggi dell’autore, il secondo atto unico, “Don Rafele il trombone” che ripropone alcuni fra gli elementi classici di questo teatro della miseria: la totale assenza di cibo nella casa del suonatore di trombone, che se non porta la paga per una sonata a un matrimonio non avrà in tavola nemmeno gli spaghetti; i pantaloni che all’apertura del giaccone si rivelano a mezza gamba sopra il pigiama, in attesa dei pantaloni interi che la figlia gli sta stirando; l’avversione per una moglie brutta e denigratoria; l’illusoria convinzione di essere un genio della musica, avendo composto alcune opere che di sicuro saranno in seguito rappresentate, portandogli la gloria; la sfortuna ricorrente al punto da farlo considerare uno iettatore dai compagni di banda; l’insperato colpo di fortuna – un contratto a suon di bigliettoni da parte di un ricco concertista – che si rivela inesistente, dal momento che il concertista è un pazzo accompagnato da un infermiere che subito dopo la stipula del contratto torna indietro e rivela la triste vicenda allo stupefatto “trombone”, che nel frattempo, per colmo di sfortuna, ha rifiutato un lavoro procuratogli finalmente da un amico.

Ben concertati tutti quanti gli attori, in una scenografia volutamente realistica e priva di trovate – lo stesso ha fatto Peter Stein in “Ritorno a casa” di Pinter, fissando sulla recitazione l’espressività -, Luigi De Filippo delinea con tratti essenziali i suoi due personaggi dello zio e del Trombone, avvolgendoli di un sarcasmo nero che si stempera poi nell’esperienza esistenziale, il primo ammorbidendosi affettivamente, il secondo accettando come ineluttabile la durezza della vita.