PORNOGRAFIA

di Witold Gombrowicz

traduzione di Vera Verdiani

regia di Luca Ronconi

scene di Mario Rossi

luci di Pamela Cantatore

 

con

Riccardo Bini, Paolo Pierobon, Michele Nani, Franca Penone, Lucia Marinsalta, Loris Fabiani, Valentina Picello, Francesco Rossini, Jacopo Crovella

Roma, Teatro Argentina, 9 aprile 2014

Maricla Boggio

Tre ore di spettacolo immergono chi vi assiste nella tortuosa immaginazione mentale di Witold Gombrowicz del suo romanzo “Pornografia”. Due uomini di mezza età, divenuti amici per caso, sono invitati in una casa di campagna, in Polonia, durante l’occupazione nazista. I due, alla ricerca di un qualche svago contro la noia, trovano motivo di sollecitazione erotica nell’osservare due ragazzi – lei figlia del padrone di casa, lui giovane apprendista nell’azienda del padrone – che con assoluta indifferenza paiono attratti l’un l’altro senza tuttavia “consumare” quell’erotismo giovanile che entrambi sprigionano.  Finché, dopo una cospicua serie di avvenimenti e l’intervento di una molteplicità di persone singolari nei comportamenti e nel carattere, la storia si conclude con un bel numero di morti, mentre i due giovani permangono intatti e i due amici maturi se ne tornano via come sono arrivati. Trama in sé apparentemente statica, percorsa invece da tremori e sorprese, in cui alcuni valori considerati essenziali all’esistenza vengono travolti dall’ironia iconoclasta dell’autore, che li sovverte deridendoli attraverso la dimostrazione della loro falsità.

La prima frase dello spettacolo elenca i valori da distruggere: Dio, famiglia, patria, religione e quant’altro investe la noia del vivere immergendo l’esistenza in una serie di luoghi comuni delle virtù. E’ Witold a pronunciarla, mentre Federico pare il soggetto ideale a recepire ogni volontà del più dinamico compagno. Si snoda, da questa frase fino alla fine del complesso romanzo, il ragionare, dialogare, riflettere dei due amici,  alla ricerca, forse, di una ragione per vivere senza affogare nella noia. E di mancanza di ragioni per vivere essi sono pieni, se quanto via via dicono, ragionano, riflettono è sempre un qualcosa sotto cui qualcos’altro si cela, senza emergere, restando nell’inesprimibile. Che cos’è allora, questo indagare sul rapporto misterioso che credono di avvertire fra i due giovani, se non una voglia di vivere attraverso l’esistenza di chi ha elementi per godere della vita, cioè la giovinezza che tutto rende festoso, tale apparendo a chi l’ha perduta ma non dimenticata? E tanto più lo stupore dei due, nel non riuscire a far sbocciare quello che fa fremere in loro il desiderio, e che tanto più si accresce quanto meno i due ragazzi ne avvertono la potenziale forza vitale. Singolari nella novità della recitazione, le prove di Enrichetta – Lucia Marinsalta, che trova intonazioni atonali staccate dal contesto, e di Carlo – Loris Fabiani con una materialità che travalica gli stereotipi.

A sviluppare vieppiù con vigore questo filone centrale dell’opera sono gli apporti di altri personaggi che vengono a contatto con i due amici. Ogni personaggio – diremmo – contribuisce a far cadere un mito della società polacca. E certo questo fatto, per cui Gombrowicz colloca la storia nella sua patria d’origine, pur essendo egli vissuto per la maggior parte dei suoi anni in Argentina e a Parigi, connota in maniera precisa la volontà di far cadere insopportabili falsi valori che l’autore, proprio perché staccato dalla sua terra, vede in maniera straniata. Quali valori può portare la famiglia ospitante, pervasa da interessi di prestigio economico e sociale nel coltivare gli affari per un crescente arricchimento? Quali valori può sostenere la volontà di accasare l’unica figlia a un gelido rappresentante di una famiglia nobile, appunto perché nobile? Ad aggiungersi a questi due disvalori c’è il prestigio religioso: Amelia, la madre di questo insensibile fidanzato, gode fama di santità nella sua vecchiezza di castissima donna dedita a Dio. Ma basterà che Federico le si avvicini perché una sorta di libidine ammantata di misticismo si sprigioni da lei anelante al contatto fisico con l’uomo; il crollo definitivo di questa falsa castità si definisce attraverso un casuale incontro con un ragazzotto penetrato in cucina, al quale la dama si accosta vogliosamente, fino ad arrivare ad una sorta di sacrificio – non voluto – di sé  attraverso un coltello con il quale finirà uccisa, e ci pare giusto segnalare come una prova di attrice di alto livello inventivo quella di Valentina Picello, fra vaneggiamenti e tremori.

I significati, i simboli, gli avvenimenti si sovrappongono e si intrecciano, forse anche si contraddicono, in una metaforica volontà, da parte dell’autore, di fare un’operazione iconoclastica. Ma per raggiungere che cosa, alla fine? Se non ci fosse, solidamente ancorato a questo susseguirsi di “scene”, l’alata volontà di Luca Ronconi a suggerirsi attraverso i suoi attori nel ruolo di narratore principe di fantasie divenute sue al di là dell’autore originario, forse saremmo tentati di constatare che, come quando Derrida destruttura togliendo via via le maschere alle false credenze, il rischio è di arrivare al nulla. Manca ancora, alla distruzione dei falsi miti, quello del patriottismo, della resistenza al nemico invasore. Ci pensa in tempo, Gombrowicz, facendo arrivare un leader della Resistenza contro i nazisti, ormai alla deriva. Gli amici e i compari decidono di ucciderlo, si rifiutano tutti di compiere il gesto, ma quando ne investono il ragazzo, questo si vedrà anticipato dal fidanzato che a sua volta verrà ucciso credendolo il leader già ammazzato. Chi sopravvive a tanta carneficina? Naturalmente i due giovani e i due amici: gli uni perché invincibili portatori di una giovinezza che essendo inconsapevole di sé è anche intoccabile; gli altri perché impegnati a guardare anziché vivere,  esterni quindi sia alla morte che alla vita.

Che dire, da parte di chi ha assistito? Elogi infiniti alla preparazione, alla bravura, all’abnegazione di aver dato vita all’intero romanzo, sia per Riccardo Bini che per Paolo Pierobon, non solo per la fatica dell’apprendimento ma anche per il livello interpretativo, bizzarro, ricco di sorprese tonali, di gestualità borderline che riescono a rendere poetiche anche le più aberranti situazioni. Apprezzamento, per i due attori, anche per la collaborazione a far inserire nello spettacolo i giovani  attori che con loro hanno lavorato un paio d’anni al progetto, in quello spazio fatato che è il Santacristina, vera casa-teatro diretta da Roberta Carlotto e abitata dagli attori insieme a Luca. Palestra unica e ricca di frutti. Al punto da rendere teatrabile un romanzo intero. Ma gli splendidi spettacoli che Ronconi ha realizzato per decenni, su testi davvero teatrali – della cui differenza dal racconto ancora crediamo – potrebbero offrire agli spettatori – oltre che agli attori – una gioiosa forza emozionale, una partecipazione viva all’hic et nunc dell’avvenimento che è prerogativa assoluta del testo teatrale in scena.