ENRICO IV

CoPERTINA HERLITZKA 2

di Luigi Pirandello

regia Antonio Calenda

con

Enrico IV Roberto Herlitzka

La Marchesa Matilde Spina Daniela Giovanetti

Sua figlia Frida Giorgia Battistoni

Il Marchese Carlo di Nolli Lorenzo Guadalupi

Il Barone Tito Belcredi Armando De Ceccon

Il Dottore Sergio Mancinelli

Landolfo (Lolo) Alessio Esposito

Arialdo (Franco) Stefano Bramini

Ordulfo (Momo) Lorenzo Garufo

Bertoldo (Fino) Dino Lopardo

Regista assistente Alessandro Di Murro

Scene e costumi Laura Giannisi

Foto di scena Tommaso Le Pera

Direttore di produzione Pino Le Pera

Roma, Teatro Basilica, 25 febbraio 2020

Maricla Boggio

Quasi cento anni fa – 1921 – Luigi Pirandello scrisse “Enrico IV” pensandolo per l’interpretazione di Ruggero Ruggeri. Quasi quarant’anni fa Antonio Calenda lo mise in scena attribuendo a Giorgio Albertazzi quel ruolo gigantesco. Oggi ripropone a Roberto Herlitzka  lo stesso personaggio individuando nell’attore possibilità introspettive e capacità drammaturgiche, al di là di una esteriore espressività quale talvolta esso è stato interpretato,  e facendo vivere attraverso di lui un clima epocale, datato certo al tempo e alle mode dell’epoca in cui fu scritto, ma superandone la datità attraverso la focalizzazione di ciò che emerge di profondo, di mai abbastanza indagato, dell’animo umano.

Si avverte fin dalle prime immagini l’intento del regista nell’imprimere la sua cifra allo sviluppo degli eventi. Quel muoversi attento, concentrato, degli attori immemori di quanto loro avverrà, come una possessione irrifiutabile, quel rendere vive le parole ricordate, del Ripellino da “Il trucco e l’anima”, “del dramma che si immedesima con la concezione del protagonista e in cui il mondo appare come quello lo percepisce”. È una riflessione che coinvolge gli interpreti ancora immemori e che si coagulerà come rappresentazione intorno al protagonista.

Prova di attori girovaghi, esperimento di giovani allievi, meditazione di stampo spiritista, indefinibile come tutto ciò che appartiene al profondo dell’animo umano, la rappresentazione si compone da sé, dove tutto appare senza realistiche costruzioni sceniche o complicazioni di stampo storico. La sedia – come indica Peter Brook – è il trono, e il bastone di Erico IV è un autentico sostegno sanitario, che fungerà anche da spada, a suo tempo.  L’entrata di Herlitzka-Enrico IV nella scena nuda, evocata quasi in un balzo dalla luce che svela la sua presenza, è l’anticipazione del dramma, del suo fingersi e giocare con tale finzione, coinvolgendo l’ingenuità stolta dei quattro “consiglieri” conniventi per sopravvivenza al puntiglioso gioco del padrone. Pietoso tuttavia, della loro fragilità, e infine, a tempo debito, bonario con loro.

Non con chi non merita pietà, ché di loro – pare suggerire con moderna criticità morale – è la responsabilità del disagio sociale, della superficialità del profittare attraverso cariche e privilegi. La storia è nota. Interessa qui il taglio nuovo di questa esposizione che finalmente fa a meno di trucchi e smancerie costumistiche, di effettacci da gran gala scenici, scalinate, sipari, parrucche e così via.

Daniela Giovanetti con spontanea adesione al suo personaggio evita languidezze e fierezze estetiche, fa emergere dalla compostezza nobiliare che la vorrebbe appena partecipe dell’ “esperimento” una rabbia covata da anni, un risentimento che chiede riscatto, e si fa aspra vendicatrice di un passato sofferto anche da lei, certo consapevole e silenziosa a condividere la lunga detenzione del perduto amante, legata per necessità sociale a quel Tito Belcredi responsabile della caduta da cavallo di colui di cui non si sa il nome – Enrico IV e nient’altro, non servono “pettegolezzi” – che qui, nell’interpretazione di Armando De Ceccon, si fa risentito e critico rispetto alla tradizionale mellifluità del personaggio.

Risalta in questo agitarsi di presenze che Pirandello ha legato a un accenno di psicoanalisi – Freud spuntava ormai anche in Italia, e si faceva curiosità e moda, oltre che serio studio – la figura del protagonista. Herlitzka scioglie il complesso monologare attraverso una leggerezza di accenti che ne consentono una presa difficilmente raggiungibile se offerta con pesantezze di toni e volontà istrioniche. Pare, di Roberto, un dialogare interiore, che gli vidi nel saltellante andar via del Moro prigioniero delle Brigate rosse, qui fatto parole, riflessioni, riferimenti appena accennati. Un recitare dimentico del teatro, tutto personale, eppure lanciato con assoluta precisione a quanti ascoltano in platea.

E la liberatoria sonorità degli applausi riporta la tragicità al gioco, e sembra non voler mai finire.