LA LOCANDIERA


di Carlo Goldoni

adattamento di Giuseppe Marini

con Nancy Brilli Giuseppe Marini Fabio Bussotti Claudio Castrogiovanni Maximilian Nisi Fabio Fusco Andrea Paciotti

scene di Alessandro Chiti

costumi di Nicoletta Ercole

Roma, Teatro Quirino, 12 novembre 2013-11-13

Maricla Boggio

 

Giuseppe Marini ha pensato uno spettacolo interessante e di forte presa, in cui ha rispettato del testo goldoniano tutto quanto c’era da mantenere, liberandosi di alcuni passaggi oggi importuni – con servi recanti notizie, intrighi di eredità ecc. – e di una delle due commedianti, che Goldoni aveva certo inserito per proseguire in una certa moda d’epoca, carica di cantatrici-puttane assai divertenti,  mentre della superstite il regista ha fatto un trans, talvolta un po’ troppo sopra le righe, a beneficio di un pubblico che subito “ci sta”. Con l’apporto delle due commedianti il furbo autore sapeva come combinare l’assunto intellettuale lucido e calcolatore di Mirandolina, icona della liberazione femminista, con la voglia di divertirsi di spettatori oltre a tutto meno familiari dei veneziani, dal momento che il debutto, nel 1753, avvenne a Firenze e il testo tende alla Toscana, dai riferimenti alla vicina Livorno, al linguaggio italiano, in cui i personaggi si sono ormai staccati dalle maschere, e quindi il servo Fabrizio non è più Arlecchino, Mirandolina non è Colombina, e i due vecchi compari di varia nobiltà non sono più Balanzone e Pantalone, ma il conte d’Albafiorita e il duca di Forlipopoli.

 

Testo modernissimo come del resto molte delle commedie di Goldoni, qui svetta una dimostrazione intellettuale della capacità femminile di vivere autonomamente la propria esistenza sotto le parvenze della sottomissione alle regole tradizionali. Mentre in altre commedie l’attenzione di Goldoni all’universo femminile procede per gradi seguendo un costume che va liberando la donna dal pesante giogo paterno o maritale, qui l’autonomia di azione non tende a fini liberatori secondo un comportamento strumentale, ma è libero gioco, intelligenza fredda e vendicativa non finalizzata che alla vittoria fine a se stessa. Tappe precedenti, “La donna di garbo” dove la servetta salirà un gradino sociale sposando lo studente figlio del padrone, “La castalda” le cui mire sono di arricchirsi a spese del padrone, mentre Mirandolina non ha necessità materiali né deve affrancarsi da gravami maschili. E’ nel gioco dei comportamenti che si snoda l’intera commedia. Scopo, far cadere il rifiuto del cavaliere di Ripafratta nei confronti delle donne, da lui considerate come una calamità da evitare.

 

Giuseppe Marini ha preso su di sé la parte del cavaliere. L’ha interpretata staccandola dal resto della sua regia, animata circa i personaggi più importanti da una frenetica voglia di godere in una sorta di pagliaccesca dimensione espressionistica, che nei costumi – belli e colorati – e nel trucco fortemente accentuato creano un distacco assoluto dal carattere improntato a serietà del Ripafratta, diverso fin dal nome rispetto alla leziosità degli altri ospiti della locanda e diverso soprattutto nei toni e nel linguaggio, con una recitazione altera quanto cedevole al sentimento a dimostrarne il carattere schivo e sincero, forse soltanto timido in quel rifiutarsi alle donne: così lo interpreta Marini, che finalmente offre di questo ben personaggio una chiave che ne restituisce la verità. E forse il timore che una notevole quantità di uomini nutre oggi consente di rendere il personaggio meno grottesco e più vero. Sullo stesso piano realistico si pone Fabrizio, cameriere destinato sposo di Mirandolina, uomo non integerrimo – “lascerà passare” qualcosa dei comportamenti della locandiera, una volta sua moglie, medita in un monologo – , mentre Mirandolina risulta quasi nel mezzo, a bilanciare i due poli di un mondo di verità – il cavaliere – e di ipocrisie – gli ospiti nobili e il trans-commediante, di notevole destrezza nell’inventar gags e intonazioni più volte degne di applausi -:  il calcolo con cui la locandiera elabora il suo piano per far capitolare il ribelle e costringerlo a innamorarsi di lei è sostenuto da una intelligenza lucida che talvolta mostra momenti di verità – forse anche lei si innamora del cavaliere? -, ma anche da un diabolico desiderio di divertimento portato all’estremo. E Nancy Brilli offre del personaggio tutta la malizia perversa mascherata di candore che è una delle possibilità di interpretazione, una volta accantonata quella, per fare un riferimento storico, ironica e distaccata di Rina Morelli nel famoso spettacolo di Visconti, ed essendo – forse, ma non lo sapremo davvero mai – più vicina all’interpretazione della Duse assai sorridente nelle poche immagini che ne abbiamo. Splendida e funzionale, non invadente la scena, che morbidamente si muove creando i vari spazi, camere, salette,  stireria in un semplice snodarsi silenzioso.

 

E’ uno spettacolo nitido e intelligente quello realizzato da Giuseppe Marini, portato fino in fondo con una drammaticità spesso trascurata in altre edizioni, tutte soltanto protese a valorizzare la protagonista. Che alla fine il regista vuole non trionfante vincitrice, ma meditativa e pressoché lacrimosa, stringendo fra le mani la boccetta donatale dal cavaliere, forse a immaginare un futuro che avrebbe potuto essere diverso se avesse accettato quell’amore iniziato come sua sfida.