L’ABISSO

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tratto da “Appunti per un naufragio” (Sellerio Editore)

uno spettacolo di e con Davide Enia

musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri

con la collaborazione

del Festival Internazionale di Narrazione di Arzo

direzione organizzativa Luca Marengo

Roma, Teatro India, 9 ottobre 2018

Maricla Boggio

Davide Enia entra in scena – uno spazio del tutto spoglio, con una luce radente, blu, da sotto il mare – nel silenzio di attesa che poco dopo si infrangerà nella marea di suoni di Giulio Brocchieri con i suoi strumenti musicali. Subito si stabilisce una tensione fra lui e la gente che gli sta davanti. Una platea, di un teatro come tanti. Ma in pochi istanti si crea il dialogo con quel ragazzo maturo che comincia a raccontare, senza fare premesse, quanto vuol farci sapere.

Dalla iniziale casualità dei suoi soggiorni a Lampedusa, alla determinazione misteriosa di quel giorno in cui, deciso ad andarci per uno scopo ancora da definire, prese parte a un primo sbarco di migranti. Non ci offre dettagli relativi a chi siano questi migranti, da dove provengano, e perché si crei una sorta di assoluta necessità a soccorrere chi sta quasi perdendo la vita in quel mare pericoloso con le sue onde gigantesche e il gelo delle sue acque: non servono informazioni, serve vivere con tutta la propria persona l’evento inevitabile.

Elementi del privato di Enia – il padre taciturno, “muto”, che smuovendosi dalla sua apparente lontananza, trova uno scambio col figlio mai avuto prima;  l’amica Paola che lo ospita insieme al suo compagno Melo, esperti di sbarchi, che con naturalezza lo informano e lo inducono a  non mancare a prender parte a quanto prima non si sarebbe immaginato e che diventa invece una necessità; e poi lo zio malato, la mamma dispensatrice di chilate di arance – tutto questo  improrogabile e denso coacervo di vita fa corpo con una realtà che si tinge di un determinismo assoluto, ed è la volontà di salvare vite umane, senza chiedere né perché né come. Il gigantesco sommozzatore che neanche lui sa perché si è trovato lì a fare quel mestiere è personaggio da favola nel suo grandeggiare benefico. I pescatori che in mezzo ai pesci ogni notte pescati trovano cadaveri da denunciare alle autorità, ogni volta fermati nel lavoro dalla imperante burocrazia sono altri personaggi di un presente di inaudita e scontrosa pietà.

Ci sono poi personaggi che prendono vita con la grazia di un’attenzione pudica nel modo di raccontare di Enia, attento a quanto succede tutt’intorno a quella tragedia che si sviluppa così, senza rumore, quasi inosservata dal mondo. C’è Vincenzo che per raccogliere i morti chiusi da giorni in una stiva si riempie naso e bocca di foglie di menta strappate al vaso dell’orto di casa, e parte  dimentico dell’orrore, soltanto determinato a dare sepoltura a quegli esseri riportandoli a dignità. Vincenzo cura il cimitero e con amore seppellisce quei morti, ragazzi tanti e una ragazza, dedicando loro piante gentili e anche croci, trascurando se la loro religione fosse cristiana: l’antica saggezza popolare gli fa superare le differenze, perché alla fine – dice nel suo dialetto incisivo – le ossa di tutti saranno bianche.

Ci sono episodi che la tragedia greca invidierebbe per inserirla nei suoi canti, come quando viene salvato un bambino che sta per annegare travolto dalle onde inferocite, mentre suo padre travolto in altro barcone sta per lasciarsi andare nell’abisso pensando morto suo figlio, e invece il bambino viene gettato nella rete della fiancata della nave e poi dentro alla sua profondità, così che anche il padre incredulo ritorna alla volontà di vivere.

Ci sono ancora momenti di stravolgente bellezza nella loro brutalità descrittiva, che riguarda la violenza alle donne, che “nemmeno agli animali”, e la corruzione dei corpi macerati nel mare, mentre le parole non bastano a descrivere la disperazione e interviene il ritmo del “cunto”, non più epopea antica da paladini, storica bellezza staccata dall’oggi, ma pulsione vitale, respiro contratto, indignazione e riscatto, in cui la cadenza signorilmente palermitana di Enia si indurisce e incupisce, facendosi popolare strumento docile alla rappresentazione del dolore.

Enia entra ed esce da queste dimensioni, come da facce di una diversa umanità a cui necessita una serie di linguaggi per esprimersi tutta.

La narrazione da cui deriva – il libro “L’abisso”, pubblicato da Sellerio, dello stesso Enia – tiene solidamente la struttura del racconto che si sviluppa  attraverso la voce, il corpo del tutto partecipe dell’autore, e le musiche immmedesimate  di Giulio Barocchieri nei vari momenti dell’azione.

Come definire lo spettacolo di Davide Enia? Soltanto il rispetto per il teatro come forma insostituibile dell’essere umano lo tiene in questo termine senza timore di renderlo inadeguato, con il rischio di abbassarlo a divertimento. Enia tocca le corde più profonde della sensibilità che un essere umano oggi dovrebbe avvertire, al di là di connotazioni politiche e sociali; getta un richiamo, a chi vuole ascoltarlo, come ha fatto lui, tempo fa, senza ancora sapere che cosa avrebbe vissuto.