LEZIONE SU ORAZIO COSTA AL DAMS DI TORINO

foto con Perrelli Torino

LEZIONE UNIVERSITARIA

DAMS – Cattedra di Storia del teatro e del cinema

del prof. Franco Perrelli

Torino – 24 maggio 2014

Maricla Boggio

(manca la parte iniziale, che il prof. Perrelli ha pronunciato circa Orazio Costa e Maricla Boggio)

Maricla: Cosa stavamo dicendo?

Franco Perrelli: Stavamo dicendo che Strehler faceva recitare anche i sassi!

Maricla: Strehler faceva recitare anche i sassi… Ecco! E Invece noi riteniamo che i titoli d’interpretazione che rendono l’attore ricco di possibilità espressive provengono da un metodo.

Ma che cos’è un metodo rispetto alle tecniche e rispetto all’interpretazione? È un’intuizione molto precisa: che esiste in ognuno di noi un’attitudine giacente che si può anche riprendere in mano, si può ricreare, un’attitudine giacente ignorata o repressa (forse da un tipo di educazione, da un tipo di cultura che interviene nelle persone dopo i primi anni) e quest’attitudine è l’attitudine mimica, che consiste in un certo uso del proprio corpo e della propria voce. Questa attitudine mimica si può, riprendere in mano e riattivare attraverso il metodo che prende appunto il nome di metodo mimico.

Che cos’è il metodo mimico?

È un processo di lavoro che si fonda sul fatto che ogni uomo reagisce di fronte alla realtà con tutto il proprio essere attraverso l’uso del proprio corpo e della propria voce fino a diventare la realtà di fronte alla quale si trova, fino a diventare la realtà stessa. È questa immedesimazione che si chiama interpretazione, fin dalle prime e banali caratterizzazioni. Noi siamo mimicamente sempre in questa dimensione di immedesimazione nella realtà. Reagiamo di fronte alla realtà, senza saperlo, attraverso questa adesione totale dei nostri comportamenti.

Ora, immaginate che entri un cagnolino. Dovete in qualche modo comunicare con lui.

Si rivolge a una ragazza.

Tu che cosa fai?

Studentessa: Sorrido!

Maricla: Sorridi…ed è già un tipo di reazione in relazione al cane! Ma che voce hai con questo tuo sorriso? È un cane piccolo…

Studentessa: Cerco di attirarlo…

Maricla: Ma che tipo di voce userai per comunicare con lui?

La ragazza mormora parole spezzate con tono infantile e giocoso.

Certo! Hai fatto una voce adeguata alla dimensione del cagnolino…

Mettiamo che invece entri un cane molto grosso… ringhioso, e anche un po’ temibile. Si rivolge a un ragazzo.

Tu come ti comporti con questo cane?

Studente: con voce scura e ad alto volume, rannicchiandosi un po’ come a difendersi.

Su! Dai!Vieni qua!

Maricla – Lo vedi? È perfino un po’ contratto il ragazzo, si rinchiude in sé, con cautela…

Adesso lasciamo stare i cani. Passiamo a un altro genere di entrata.

Entra il professor Perrelli in tenuta da tesi di laurea e non come oggi, così… simpaticamente casual…

Si rivolge a un’altra studentessa.

E tu sei la laureanda… Come ti comporti di fronte al professor Perrelli?

La studentessa assume un atteggiamento formale, irrigidendosi. Ma non si alza in piedi.

Maricla – Atteggiamento rigido, compunto… Però. seduta” Non vi alzate mai quando c’è una tesi di laurea?

La ragazza si alza in piedi mantenendo l’atteggiamento rigido.

Improvvisamente finisce questa tesi di laurea e scoprite che c’è una festa, proprio per la tesi di laurea. E’ la tanto sognata festa della tesi di laurea! E allora, come vi comportate? Forza… immaginate!  ci sono i panini, i dolcetti, i cocktail eccetera, qui in mezzo alla nostra sala trasformata per l’occasione. Cosa fate? Rifiutate tutto questo ben di Dio? Immaginatelo! Che succede riguardo al vostro comportamento?

Studente –  timidamente

Penso di mangiare un panino…

Maricla – Mangiare un panino va benissimo, ma quello che a me interessa è la temperie nella quale vi trovate: quella di una festa!,  che suggerisce gioia nei movimenti sciolti… nei suoni prima ancora che nelle parole che indicano allegria, spensieratezza!

Attenzione! A noi non interessa far finta di mangiare un panino, a noi interessa che si raggiunga l’atteggiamento di godimento, se vuoi, del mangiare un panino!

I ragazzi via via sempre più sciolti si muovono ridendo, si lanciano in piccoli giri di danza, agitano braccia e gambe in preda a una certa euforia a cui non è estranea una sorta di ubriacatura.

Ecco, benissimo, bravi! Adesso poco per volta ritornate al comportamento che appartiene al nostro incontro, di ascoltatori di una lezione sul metodo mimico.

I ragazzi tornano a sedersi ai loro posti.

Bene, questo piccolo esperimento ho cercato di farvelo vivere per segnalarvi che a ogni situazione diversa, nella vita, voi assumete atteggiamenti diversi, e se non li assumete esteriormente perché è un momento, come questo, che non consente esternazioni eccessive, voi vi mutate dall’interno perché state rendendovi conto di qualcosa che sta succedendo, e che è una modificazione rispetto al momento precedente. E in base a quello che comprendete, vi esprimete in maniera diversa.

Badate che io sto usando alcune parole che sono molto significative. Comprendere significa “buttare dentro”  di sé, cum-prendere quello che avviene. Se voi non comprendete rimanete fuori, fuori da una situazione che interviene e che vi modifica. La situazione “panini e cocktail” vi modifica rispetto alla situazione “tesi di laurea”, e questo voi lo esprimete – cioè lo “spremete fuori”, proprio seguendo il termine “ex-primere” – spremere fuori da voi stessi attraverso la mutazione che avete avuto, sia fisicamente che vocalmente se avete anche usato delle parole.

Questi elementi sono, in sostanza, gli elementi primari di questo metodo mimico che è una grande scoperta, perché proprio dall’osservazione parte il metodo, e quindi la riflessione che ognuno di noi – cioè tutti gli esseri umani – abbiamo come facoltà di diventare tutto quello che è la realtà, immedesimandovisi. Altrimenti è la morte! Se voi non vi rendete di questo, se non aderite a questa riflessione, siete morti perché non avete più alcuna reazione vitale. Ma potete esprimere questa facoltà con più o meno forza, e più c’è in voi una capacità a esprimere, più questa capacità è derivata dalla vostra attenzione a quello che va a succedere, a quello che andate a osservare.

Facciamo un esempio.

Se d’estate entrate in un ambiente con l’aria condizionata, dal caldo che era fuori questo ambiente vi dà l’impressione di una ghiacciaia, voi cosa fate? Il vostro corpo, la vostra voce avranno un certo tipo di reazione al contatto con il freddo.

Si rivolge a una studentessa.

Sentiamo come ti senti tu. Fammi la voce con cui commenti questo gelo…

Studentessa – Con voce tremolante – Che freddo…!

Maricla – Com’è questa voce? È tremolante. Soprattutto se in  quell’ambiente ci state per un po’, sentirete che il freddo andrà sempre più impadronendosi di voi e muterà la vostra voce, e irrigidirà i vostri muscoli nel tentativo di resistere a quel freddo; e irrigidendosi i muscoli, la voce a sua volta assumerà una sorta di rigidezza. E addirittura  – perché bisogna anche cominciare a utilizzare il grande discorso delle metafore –  c’è chi, nelle condizioni che abbiamo descritto, dice: “Sono un pezzo di ghiaccio” e non dice: “Mi sento come un pezzo di ghiaccio”: no!, dice: “Sono un ghiaccio! “. A parte tutte le altre metafore della fisicità che possiamo tirar fuori, come, per esempio: “Sono a pezzi!”. Che succede? Tac tac tac tac…: alcune membra, un orecchio, sparsi sul pavimento? No di certo! Ma la metafora è quella, di un corpo che si fa in pezzi, e la voce riproduce una spezzatura delle sillabe. La voce non sarà: “Sono a pezzi!” no!, ma sarà “So-so-sono a pe-pezzi!”. La voce dirà che voi veramente vi sentite così, e questo vostro stato viene evidenziato dalla situazione vocale derivata dall’irrigidimento e dal tremore del corpo. Gli attori sono capaci di giocare al contrasto, per cui tu puoi dire veramente: “Ah! Che sole! che caldo!” oppure dire: “Che gelo!”  con la voce adatta a ciò che esprimono queste parole anche se la situazione relativa alla temperatura non ha niente a che vedere con quello che dicono. Sono giochi che si possono fare con la propria voce e con la reazione del proprio corpo all’inverso di quello che sarebbe naturale; però io vorrei riuscire a segnalarvi che, a ogni situazione esterna in cui vi trovate a essere, corrisponde esattamente in voi una mutazione adeguata, più o meno evidente ma che comunque si verifica. Ed è già questa un’interpretazione: minima, che si realizza in voi, ma che appartiene alla comune sensibilità del quotidiano, che poi viene esaltata dai vari cerimoniali nei quali ci troviamo a vivere e che costituiscono forme di interpretazione che non arrivano a una dimensione artistica, tuttavia esigono un adeguamento alle circostanze e un comportamento conseguente.

Il discorso dei cerimoniali è importantissimo per andare a vedere come sono i comportamenti conseguenti: perché il cerimoniale del battesimo  – che oltretutto si innesta nei cerimoniali naturali che sono la nascita, la crescita, la puerizia, l’accoppiamento e così via fino alla morte – però su questi cerimoniali naturali come altri comportamenti, anche varianti all’interno di ciascuno di essi, perché il cerimoniale della nascita può essere quello proprio selvaggio del momento della nascita, col bimbo che piange, poi c’è il cerimoniale che possiamo chiamare “dell’attesa” e anche lì le persone si comportano in una certa  maniera; ma tornando al cerimoniale del battesimo, esso muta profondamente a seconda che si tratti di un battesimo cattolico o di altra religione ( con nomi differenti rispetto al battesimo, ma con cerimonie analoghe) e, anche nell’ambito del battesimo cattolico, esso può essere celebrato in modo molto semplice oppure con ricchezza di contorni, con dovizia di abbigliamenti ecc.: le persone che prendono parte a una di queste cerimonie assumerà comportamenti adatti alla situazione, sia negli abiti che nei gesti che nella voce.

 Immaginatevi la famosa festa di laurea di cui abbiamo parlato prima e un funerale: soltanto un pazzo o un maleducato potrebbe partecipare a un funerale canticchiando e danzando, a meno che non si tratti di un rituale di persone di colore, in cui si balla e si canta  perché tali comportamenti fanno parte di una cerimonia messa in atto secondo dei loro rituali. Ma, anche in questa situazione la voce di chi canta si tinge di una particolare emozione, si attenua nel pianto e così via. Qui c’è tutta una tipologia di elementi che convergono al comportamento: essi sono straordinari nel farci constatare che questo metodo mimico, se viene esaltato, quindi reso più attivo, esso fa ritornare il corpo e la voce alle proprie possibilità espressive: ma il corpo e la voce devono essere esercitati. E qui, dopo la comprensione del metodo sul piano teorico, interviene la parte pratica, cioè l’applicazione del metodo.

Franco Perrelli –  Cioè, praticamente sono le situazioni che creano il tutto?

Maricla –  Certo! Ma oltre a situazioni esterne, sono determinanti anche situazioni personali, interiori… ad esempio di qualcuno che sta pensando a un momento della sua vita e dentro di sé opera una sorta di movimento… Anche un pensiero modifica il corpo: può essere un brivido, un’emozione che fa affluire il sangue con più vivacità… Soltanto un morto non si modifica.

Franco Perrelli – Quindi se io voglio fare una regia, devo creare una sequenza di situazioni in modo tale che l’attore, attraverso queste situazioni, trovi la via giusta per esprimere un serie di cose…

Maricla – Tu sei già a un altro livello, perché il metodo mimico non interviene nell’interpretazione, tranne una volta attivate tutte le possibilità espressive dell’attore rispetto al complesso del testo, atto per atto, sempre andando più ad approfondire, rispetto alla scena 1-2-3-4 eccetera, rispetto all’arco del personaggio e così via: quando l’interpretazione avrà attivato tutte le sue possibilità espressive e il regista sceglierà in base allo stile che vorrà dare lui. Perché il metodo non interviene nello stile registico che verrà scelto successivamente…

Franco Perrelli: Chiunque, qualunque stile registico se ne può servire?

Maricla: Certamente! Senza esserne condizionato dal metodo mimico – noi diciamo la mimica, per brevità, ma con voi ho usato metodo mimico perché rischiamo di confondere il nostro metodo con la mimica. si tratta di una forma di espressività legata al mimo francese in cui si fa riferimento all’imitazione: qualcuno ad esempio fa un gesto con un braccio e tutti gli attori che sono impegnati in un coro ripeteranno questo gesto, ciascuno con il suo braccio. Quindi è da un determinato elemento – in questo caso, un braccio – che si realizza l’imitazione di tutti gli altri al gesto di quel braccio: immaginatevi delle coreografie realizzate in questo modo, ma sempre legate all’imitazione di un elemento rispetto a un altro. Mentre il metodo mimico – quindi la nostra mimica – è un’interpretazione che si sviluppa per analogia. Noi sentiamo in maniera umana, e antropomorfizziamo tutta la realtà. Conoscete “Zio Vanja”? Nessuno conosce “Zio Vanja”? In questo meraviglioso testo di Cechov c’è un personaggio che si chiama Eléna, una bellissima donna; a un certo punto, in un dialogo con lei, Astrov – il dottore, un altro personaggio della commedia –che è innamorato di questo bellissima donna, destinata a suscitare passioni e adorazione in tutti, che non ha nessuna occupazione che essere curata ed elegante, bene, Astrov la chiama “Bella morbida faina”, che in altre traduzioni diventa “Bella piumosa faina” ecc. : questa donna che si muove in maniera morbida, sinuosa… ha suggerito ad Astrov un animale elegante, soffice ecc. , ma non ha detto, ad esempio: “Eléna ha un passo morbido e cauto come una faina”. No! Ha detto: “Bella piumosa faina”. Ha usato una metafora. Cioè ha eliminato il confronto, sottolineato dal “come”: ha eliminato il “come” e ha immedesimato la donna nella faina. Non è che quella donna improvvisamente si presenti con il pelo e con la coda, ma della faina suggerisce nella camminata il ritmo morbido, la sinuosità, la bellezza animale. E un sostantivo accompagnato da un aggettivo di quel tipo suggerisce un modo di muoversi, una voce certamente armoniosa, non stridente, all’attrice che dovrà trovare dei riferimenti, nel testo, che le consentano di aderire al personaggio e quindi di interpretarlo fedelmente.

Abbiamo citato il ritmo.  Anche il ritmo va considerato come un elemento importantissimo per precisare il tipo di azione che intendiamo descrivere. Per esempio: “Ho visto un volo di colombe bellissimo”. Ecco… tutti voi il volo di colombe lo fate attraverso un ritmo veloce della mano che si agita verso l’alto; la mano è l’elemento che ha conservato più di tutti, nel corpo, una capacità mimica, e vi suggerisce questo gesto, dell’agitarsi in alto a rappresentare il volo delle colombe. Però se doveste descrivere un volo di rondini, sarebbe un movimento diverso: ce lo suggerisce molto bene una poesia di Mario Luzi. “Sgorgano/ una dall’altra/ esse, traboccano/ fuori dal loro primo caldo gruppo, l’una/ dopo l’altra, disfano/ le loro rapide pattuglie…..”. E “sgorgano” ti dà l’idea delle rondini che volano, una dietro l’altra, non tutte insieme, come magari le colombe. Ma vi rendete conto, voi, di quale metafora si è servito il poeta nell’usare un verbo – sgorgare – che vuol dire l’acqua che scende, a cascata? “Sgorgano!”. Non sgorgano le acque, ma sono le rondini a inseguirsi come delle sorgenti! Che “traboccano”, anche qui un verbo che suggerisce l’uscita impetuosa dell’acqua… Ed è la voce che può dare questa idea dello sgorgare che in realtà è un volo verso l’alto, che trabocca…

La differenza fra questi due voli la potete riscontrare se fate attenzione a come guardate quello che vi si presenta davanti agli occhi. Ci sono persone che non osservano attentamente quello che guardano. Perciò per loro un uccello vale l’altro, purtroppo capita soprattutto a chi vive in città e non ha la possibilità di osservare uccelli differenti, come in campagna, e differenti modi di volare.

Quindi, per tornare a noi, l’analogia è veramente elemento fondamentale del metodo nel far sentire tutto quello che si vuole andare a esprimere. Purché tu sia attento! La concentrazione è uno degli elementi fondamentali perché l’attore  – ma prima dell’attore l’uomo in genere, giovane o anziano – possa immedesimarsi in quanto va a esprimere.  Tutte queste osservazioni Orazio Costa le ha adottate per l’insegnamento per attori e registi dell’Accademia, ma le ha utilizzate anche  per altri tipi di corsi dedicati a persone che non avevano intenzione di fare gli attori, ma semplicemente di arricchire la propria capacità di esprimersi.  In particolare c’è stato un insegnamento durato più di quindici anni, concertato con il Comune di Firenze dove, nei vari quartieri della città, gli ex allievi di Orazio Costa facevano lavorare con il metodo mimico chiunque si fosse iscritto ai corsi, indipendentemente dall’età e dalla cultura. Il Comune aveva capito che il metodo costituiva un elemento di ricchezza espressiva, capace di recuperare persone magari anche incolte, ignoranti della poesia, perché il lavoro sul metodo poi cresce e diventa poesia, e diventa teatro. Però, per arrivare ai livelli superiori bisogna avere acquisito una propria capacità espressiva che può essere già in qualche modo una forma che arriva a far esprimere poeticamente. Noi non dobbiamo credere che i poeti siano solo i famosi poeti “laureati”. Il poeta può essere un artigiano che si inventa una sua canzoncina, poeta è la cuoca che trova dei termini particolarmente espressivi per la sua cucina, ma tutto questo – e ribadisco questo concetto – dipende dalla ricchezza che noi abbiamo acquisito a esprimerci osservando. Perché se noi rimaniamo chiusi nel nostro mondo “paratelevisivo” arriviamo soltanto. a dire: “Ho visto passare degli uccelli” dal  lato verbale, e conseguentemente da quello gestuale;  e così, facendo altri esempi: “Ci sono dei bei fiori”… “Oggi è freddo”, “Oggi è caldo” ma come queste cose siano poi nei dettagli e nelle differenze non emerge, queste immagini risultano superficiali, prive di elementi che ne mettano in risalto le caratteristiche. Se guardo il sole, potrei dire, sviluppando una certa attenzione: “C’è il sole, è un sole radioso, è un sole pallido, sporge dalle nuvole”… Tutto questo dipende dalla nostra capacità di osservazione che arricchisce anche il nostro vocabolario, in quanto ci impone di precisare nei dettagli quello che vediamo. A Firenze, sempre attraverso il Comune, si sono tenuti degli incontri sul metodo mimico in una scuola media, e si sono avuti dei risultanti particolarmente interessanti anche rispetto alle lezioni di italiano: gli insegnanti hanno riscontrato un notevole arricchimento  verbale da parte degli alunni anche nello sviluppo dei temi.

Noi possediamo due lobi cerebrali: quello di sinistra è preposto al linguaggio, alla razionalità; quello di destra, invece, sviluppa la creatività,  è preposto alla fantasia, alla poesia, all’arte. C’è chi li ha attivi tutti e due, c’è chi ha più questo o più quello. Nel corso dei secoli, per un fatto di necessità, è stato più sviluppato il lobo sinistro, perché era quello dell’esecutività delle mansioni: non c’erano le macchine e si doveva ripetere, ripetere, ripetere delle azioni per moltiplicare i prodotti. Ma con l’avvento delle macchine si è verificata la possibilità di avere più tempo a disposizione (questo, purtroppo è un po’ sul teorico data la situazione attuale del lavoro). Il lobo destro è quello che consente di esprimersi in una maniera più ricca e fantasiosa. Un altro esperimento è stato fatto, a Firenze, su delle persone che avevano avuto dei problemi motori, problemi di ritardo mentale, delle paresi, eccetera: tale esperimento è stato fatto in una clinica geriatrica. Queste persone sono state sollecitate a rialzarsi da uno stato passivo, di posizione seduta o sdraiata, suggerendo un’immagine; non è stato detto loro: “Alzati!… Metti alla prova tutta la tua forza di volontà e alzati!” ; è stato invece detto loro, ad esempio:  “Sei un albero… che fiorisce!”, “Sei un fiore che sboccia!”, e queste persone sentivano qualcosa fremere in loro e si alzavano spinte da una forza nuova. Questi risultati sono stati constatati, e noi dobbiamo renderci conto che abbiamo più possibilità espressive che non quelle che magari, pensando di comportarci in maniera molto educata, convinti di doverci contenere nei gesti e nei toni, usiamo quotidianamente. Noi abbiamo le possibilità che possiedono i bambini, sicuramente fino ai cinque o sei anni di età; poi, quando cominciano ad andare a scuola viene loro imposto di stare “composti”, seduti, zitti, “Comportatevi bene, non disturbate”, eccetera…  Adesso sul piano della libera espressività si sta recuperando qualcosa a livello scolare, ma molto resta da fare, perché in certi ambienti c’è quasi una chiusura.

Ma se voi chiamate adesso qui dentro un bambino, e questo bambino vuole un gelato, come pensate che lo chieda questo gelato? La studentessa in décolleté bianco…  può dirci cosa farà questo bambino? Dirà: “Io vorrei un gelato” facendo credere a tutti che questo è un nano, non è un bambino! perché se chiede educatamente un gelato, è un adulto che sembra un bambino. Che cosa fa invece il bambino autentico?

Studentessa in décolleté bianco –  Voglio un gelato!

Maricla – Sì ma… come lo chiederà? Fai il bambino… alzati, vai fuori, poi entra e chiedi!

La studentessa esegue quanto proposto, poi parla battendo i piedi per terra con ritmo analogo a come pronuncia la frase, con forza e cocciutaggine.

Studentessa in décolleté bianco – Voglio un gelato!!!

Maricla – Vedi? Adesso sì che hai dato forza alla tua richiesta. Il bambino “è” il gelato! Il bambino ha voluto con tutte le sue forze il gelato, e il gelato gli verrà dato. Ma se avesse detto: “Vorrei un gelato”… “Adesso no, zitto!, abbiamo da fare” o “No, il gelato no!” Invece il bambino insiste, rompe le scatole che vuole il gelato, e avrà il gelato!

Volete intervenire in modo che ci rendiamo interattivi?

Franco Perrelli – Ma la parola qualsiasi  – come il gelato – e la parola di musica, la parola poetica, che peso hanno nelle reazioni?

Maricla – Secondo me, modestamente – perché ognuno poi si dà le risposte che vuole – attenzione!, non ci sono parole poetiche e parole no!

Franco Perrelli – Quindi il gelato equivale a “essere o non essere”…

Maricla – Le parole sono tutte possibili di diventare poetiche. Che cos’è che crea la poesia? Il contesto delle parole, il modo come le parole sono accostate che genera la cosiddetta “temperie”! La temperie è quello stato di fermento, di sensazione intuitiva, eccetera, che è la poesia. È l’intuizione della poesia. Se io dico “Primavera d’intorno/ brilla nell’aria, e per li campi esulta,/ sì che a mirarla intenerisce il core./ Odi greggi belar, muggire armenti;/ eccetera, questa, grazie a Dio essendo di Leopardi, è una poesia! Ma se io, ad esempio, dico: “D’intorno, nell’aria, brilla primavera, e esulta per li campi”, la poesia non c’è più!  E non si tratta di parole ricercate, “poetiche”, come si dice ironicamente, ma di parole usuali, che, poste in un certo modo a costituire una frase, suggeriscono immagini, luminosità, gioia o tristezza attraverso il suono che si crea mediante la loro giustapposizione. Anche Guido Gozzano, dopo un periodo in cui andava di moda la poesia pomposa dalle parole preziose, come quelle di cui si serviva D’Annunzio – ma lui in quel modo, piaccia o non piaccia, sapeva fare vera poesia –  ha usato le parole della vita quotidiana rinnovando il modo di fare poesia.

Tornando al nostro tema, del gelato voluto dal bambino, il gelato del bambino è illuminato dalla sua forza espressiva, dal suo desiderio di averlo… ma è l’interpretazione di una richiesta… non siamo alla poesia! , e tuttavia dobbiamo riconoscere che la forza dell’espressione provoca una sorta di emozione per cui il desiderio viene esaudito. Ora non mi viene in mente nessun verso in cui ci sia la parola “gelato” ma sicuramente si può fare una poesia anche con questa parola come elemento protagonista. C’è una poesia bellissima di Gozzano, “Le Golose”. Protagoniste sono le signore che vanno da Baratti  – un caffè molto elegante di Torino che esiste ancora oggi – a mangiare le “bignole”. La poesia inizia così:

“Io sono innamorato di tutte le signore /

che mangiano le paste nelle confetterie.

Signore e signorine – le dita senza guanto –

scelgon la pasta. Quanto

ritornano bambine!”….

E Gozzano è riuscito a dare questa sensazione di golosità, di gioia, di allegria, di pettegolezzo attraverso la combinazione di parole che, collocate dal poeta in un certo modo, creano poesia, mentre sono parole qualunque, che usate nel quotidiano hanno soltanto la qualità di fornire informazioni.

Franco Perrelli – Durante una lezione di Costa, lui diceva che la creatività, in una qualche misura, si era concentrata sulla mano… Voglio capire una cosa… Come si è posata sulla mano, si riesce a tirare fuori dalla mano? Perché pare che lui, in un qualche modo, dicesse: “Li si è concentrata e da lì la tiriamo fuori…”.

Maricla: E’ proprio quello che dicevo prima a proposito della mano. Come ricorda Franco Perrelli, è rimasta nella mano questa capacità unica, questo adeguamento a quanto vogliamo andare a interpretare. Tanto è vero che sarà capitato senz’altro anche a voi di non trovare una parola per completare una frase e allora fate un gesto, magari verso l’alto, agitando la mano, come se voleste raccogliere dall’anima la parola che vi manca. Perché la mano la richiama! Ma il professor Perrelli è andato oltre, giustamente: ha toccato la sostanza del metodo. Perché? Perché per esaltare questa mimicità repressa, ignorata, dimenticata, siamo alla parte pratica del metodo mimico: c’è tutta una serie di esercizi che, partendo dalla mano – di cui abbiamo appurato il permanere dell’espressività gestuale –  e partendo dal respiro – che è il movimento tipico di tutti noi per mantenerci in vita, ed è anche il primo movimento a cui si susseguono tutti gli altri che intendiamo fare –  riescono a riattivare la gestualità del corpo che va poi ad attivare la vocalità, con suoni che il corpo attraverso determinati movimenti ottiene, suoni che probabilmente erano i primi suoni emessi dall’uomo selvaggio. Orazio Costa ha ipotizzato anche una sua teoria che afferma – in maniera non assolutamente scientifica, ma come intuizione – che le parole sono intervenute in seguito alla necessità di diversificare l’urlo (che era quello che poteva uscire da una determinata contrazione del corpo, ma che una volta poteva dire: “Attenzione! Ci sono i lupi!” come: “Evviva! Abbiamo cacciato bene!” oppure: “Ti amo, Maria!” o esprimere dolore, fame, e tutto quanto già allora l’uomo provava, e quindi questi suoni che uscivano spontaneamente attraverso determinati movimenti. Perché se io dico: “Che bel sole”… o dico: “Ahhhhh… che bel sole!” c’è un senso di sollievo, di respiro, di apertura. Se invece dico: “Ahhhh… come piove!” …la voce cambia! perché sollecitati da un diverso movimento i risuonatori si contraggono o si dilatano producendo suoni differenti. Questo è molto esemplificativo perché, credetemi, io sono molto contenta di raccontarvi queste cose, ma non vorrei che ne faceste una indigestione, perché di solito noi lavoriamo per anni su queste cose, e quindi, fatto ingurgitare un po’ tutto insieme mi auguro che certi elementi vi siano  comunque abbastanza chiari. Ma sull’argomento io ho scritto quattro libri, editi da Bulzoni e sono state scritte parecchie tesi di laurea). L’ultimo è quello sulle prove dell’Amleto, che Orazio Costa ha tenuto per due anni interi in Accademia con l’intera classe degli studenti. Se andate sul mio sito trovate i filmati relativi al metodo -“L’uomo e l’attore, Orazio Costa – Lezioni di teatro”  in cinque parti – “Firenze” che è doppia, proprio sul metodo, poi c’è “Bari”, due puntate sulla scuola interamente improntata al metodo, sostenuta dalla Regione Puglia, e infine “Roma-Taormina” dove si seguono  le prove de “Il Mercante di Venezia” con interviste a Gianrico Tedeschi e a Paola Gassman che rievocano gli anni in cui erano allievi di Costa, ed è di notevole importanza il discorso relativo all’applicazione del metodo all’università di Roma nel laboratorio diretto da Ferruccio Marotti. Attraverso queste puntate si conclude l’arco in cui ho voluto mostrare come, attraverso il metodo, si parte dal respiro e dagli esercizi realizzati da qualunque ragazzo senza particolari attitudini attorali, fino ad arrivare al grande teatro professionale. La scuola di Bari è durata tre anni, e ha diplomato dei ragazzi molto bene io ho ne fatto parecchie riprese di cui ci sono i filmati sul mio sito. Vorrei ancora dire una cosa per continuare a rispondere alla tua domanda sulla parola poetica: nel corso del triennio di regia da me seguito in Accademia, durante un anno abbiamo lavorato con Orazio Costa su tutti gli “Amleti” che abbiamo trovato… – tu sai bene, Franco Perrelli, figurati!, quanti sono – ci sono decine di tragedie intitolate ad Amleto, tra cui, tra l’altro quello di Laforgue al quale ha attinto Carmelo Bene per un suo spettacolo. Perché l’Amleto di Shakespeare è davvero un’opera di grande poesia? Perché in questa tragedia non si tratta soltanto di fermarsi alla trama e al contenuto che se ne evince. Il contenuto non è tutto!, quello che conta è la temperie, cioè come questi personaggi parlano attraverso delle battute che hanno una consistenza poetica, una profondità di pensiero, un complesso di elementi che superano il dato narrativo.

Franco Perrelli – Però, Maricla, io questo metodo posso portarlo in teatro, dove bene o male le prove presuppongono una certa continuità… Se io l’attore lo sposto sul cinema, dove lavorano “a pezzi”, come può aiutarmi il metodo? Cioè… è concepito anche per il cinema?

Maricla – Anzi, direi che potrebbe essere sfruttato al meglio. Orazio Costa ha tenuto lezioni in Accademia in maniera continuativa, ma contemporaneamente ha avuto un corso anche all’Accademia di Santa Cecilia per cantanti, musicisti e direttori d’orchestra – sovente io andavo a seguire quelle lezioni – ed è stato docente anche al Centro Sperimentale.

Franco Perrelli – Ma dicci che cosa insegnava: la recitazione sul palcoscenico?

Maricla – La regia… e quindi anche la recitazione.

Franco Perrelli –  La regia, ecco!

Maricla – Chiaramente, nel momento in cui Costa avesse insegnato solo il metodo, sarebbe stata una sorta di preparazione alla regia… Tengo anche a precisare che il metodo mimico è uno strumento – come abbiamo detto – di lavoro; con esso si sviluppa un processo di lavoro che aiuta a recuperare delle forze espressive che potenzialmente ognuno di noi possiede, ma ignora o ha dimenticato. Ci sono attori che non lo hanno conosciuto e tuttavia sono ricchi di capacità espressive, attualmente e nel teatro  di altre epoche. La Duse ignorava il metodo mimico. Roberto Herlitzka – che era quasi un alter ego di Orazio – dice: “Io non capisco niente del metodo mimico!”… a parte che quando lui lavorava con Costa – siamo negli anni Sessanta -,  erano gli anni dell’inizio dell’elaborazione del metodo. Costa, attraverso i “Quaderni” che tu ben conosci – e che mi auguro pubblicheremo un giorno o l’altro, magari con il tuo aiuto – ne parla fino all’ultimo suo scritto, del 1999, avendo cominciato cinquant’anni prima ad approfondirlo, elaborandolo e vedendone le possibilità di applicazione, nel teatro e al di fuori di esso.

Franco Perrelli – Ma nel cinema come lo applichi?

Maricla – Nel cinema, per quello che io ho potuto capire, anche dalle cose che lui dice…

Franco Perrelli – Costa non ha mai fatto cinema?

Maricla – No. Ha fatto qualche regia lirica, oltre a quasi duecento regie teatrali. Però degli attori che hanno avuto successo in cinema sono stati tra i suoi allievi. Giancarlo Giannini e Nino Manfredi, ad esempio, Monica Vitti, Gabriele Lavia, lo stesso Herlitzka. E poi gli allievi dell’ultimo corso, degli anni Novanta, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio, Alessio Boni…

E per rispondere alla tua domanda sull’applicazione del metodo nel cinema, per quanto mi è possibile riporto quanto Orazio Costa diceva: “Molto importante nella capacità di sollecitazione del metodo è arrivare ai parossismi”. Che cosa sono i parossismi? Sono delle forze espressive portate al massimo livello, il che non significa sempre che questo massimo livello sia di violenza: noi siamo abituati a parlare del parossismo come un qualcosa di deflagrante, no? L’urlo, la rottura, il fuoco che divampa… Ma il parossismo può essere anche l’infinitesimo leggerissimo… , un parossismo di senso opposto. E può esserci addirittura un parossismo che non si vede (fisicamente, con della gestualità), ma che appena appena lo si avverte nell’espressione di un quasi sussurrato (dico “quasi” perché il sussurrato se non ci sono dei microfoni non lo si sente, perché non ci sono le corde vocali che vibrano); addirittura può essere un parossismo che non si sente, con nessuna voce, ma che, attraverso una espressività (che al cinema si vede molto di più che in teatro, soprattutto in primo piano, mezzo primo piano eccetera, addirittura di spalle). Non so chi ha visto quel film di Bellocchio su Aldo Moro…

Un ragazzo fa un gesto affermativo.

Lui lo ha visto! Il finale… c’è Roberto Herlitzka che se ne va saltellando, con le spalle un po’ sussultanti… : quello si può definire un parossismo perché c’è solo una mobilità silenziosa che dà l’idea della libertà, offre una sensazione giocosa, e non c’è la faccia.

Il ragazzo accenna al movimento, che ricorda molto bene.

Orazio diceva: “Mentre in teatro noi dobbiamo fare concentrazione per entrare in un personaggio, e poi rilascio”. Cioè… noi dobbiamo andare in prova anche in uno stato di tensione, ma poi quella tensione dobbiamo imitarla per il dopo, non dobbiamo ogni volta ritornare a quello stato di tensione e violenza che può essere anche nocivo, e che in altri cosiddetti metodi – come il Metodo Stanislavskij di cui vi posso parlare senza denigrarlo, ma diversificandolo – l’attore è costretto a rifare il massimo che ha raggiunto ad ogni interpretazione. Al cinema noi possiamo dare tutto anche in uno stato di totale sacrificio di sé perché quel sacrificio tu lo fai una volta, e poi rimane, ma l’attore che ogni giorno, di sera, deve fare quella parte in cui si esprime nel delirio (cioè nel massimo della disperazione, del dolore, eccetera), se lui ogni volta dovesse rivivere, riconcentrarsi e scoppiare, non sarebbe possibile. Per cui bisogna imitare quello che si è arrivati a fare e non dare più ogni volta tutta quella forza. Invece al cinema tu puoi essere molto più espressivo, e il metodo ti può aiutare permettendoti di tirar fuori da te il massimo per quell’unica volta. Il metodo elaborato da Stanislavskij – specie quello dei primi anni – era proprio… veramente… legato al realismo: è utile – direi – in certi tipi di interpretazione realistica in cui la tua esperienza personale serve, perché tu devi esprimere un dolore, un piacere, eccetera, in analogia a quello che hai vissuto…Una volta ero a un Festival di teatro a Bristol, dove c’era un department of drama e quindi i ragazzi facevano molto teatro. Due di loro giravano per l’Università, nei parchi, nelle aule, nei pubs,vestiti da Didì e Gogò – i protagonisti di “Aspettando Godot” di Beckett, allora appena conosciuto – con le scarpe rotte e i vestiti a brandelli, una carota in mano che ogni tanto mordicchiavano, barbuti, un cappellaccio… “Ma chi sono questi? Eh!… devono interpretare i loro personaggi e si stanno immedesimando!”. Ma facevano delle cose pazze., lontane dalle battute di cui i personaggi erano costituiti… perché in realtà il personaggio è la battuta, e basta! Non c’è altro… Non possiamo immaginare – ad esempio – che Amleto abbia diciotto anni e sia triste – come certi registi lo hanno voluto far interpretare – perché in una battuta del becchino ad Amleto viene detto che il teschio che stanno tirando fuori era stato seppellito ventitrè anni prima ed era del buffono Yorick; Amleto che a quel tempo era già un ragazzino aveva avuto come amico Yorick, gli saltava sulle spalle, si divertiva ai suoi lazzi: lui deve quindi avere una trentina d’anni. Quindi, se noi andiamo al di fuori della battuta possiamo dire – e fare – delle cavolate pazzesche, il che avviene continuamente con molto gusto ed originalità, da parte di registi e interpreti che godono fama di originali.

Il metodo Stanislavskij può funzionare benissimo con un tipo di teatro realistico, dove la propria esperienza può essere utilizzata per un certo tipo di personaggio (a parte poi che in lezioni successive, quelle al Bol’šoj, questo regista è andato più avanti, e ha capito che il testo era la cosa fondamentale su cui basare l’interpretazione, e che quindi non bastava l’immedesimazione usando soltanto la propria esperienza vissuta). Torniamo al nostro metodo: esso ci mette a disposizione l’intera realtà attraverso la reazione che noi mettiamo in atto adeguandoci a questa realtà (sia che si tratti di elementi materiali inanimati – ghiaccio, caldo, freddo, eccetera -, sia attraverso i vegetali, i fiori, gli alberi ecc; ma poi andando avanti nelle più varie immedesimazioni, e arrivando ai concetti, un salto qualitativo che supera il materiale e va all’astratto. E dai concetti, andando ancora avanti, si arriva all’immedesimazione nei sentimenti, fino ad arrivare alla parola che usiamo nelle nostre espressioni quotidiane, approdando infine alla parola poetica: parola intesa come linguaggio poetico, temperie che suggerisce stati d’animo, sensazioni ecc.; parole che il poeta ha reso poetiche attraverso la loro giustapposizione. Per cui, quando noi siamo chiamati a improvvisare e dobbiamo fare una nuvola… da questo primo scalino arriviamo gradualmente  alla poesia e al teatro attraverso l’affinamento del nostro strumento interpretativo addestrato dalla mimica.

 In queste situazioni noi ci troviamo davanti – soprattutto parlando di teatro – a dei personaggi che sono al di là della nostra esperienza personale, sia per età sia per condizione sociale, carattere, forza espressiva .Un “Re Lear” difficilmente lo può fare un attore (anche bravo) se non riesce a trovare quella forza che è qualcosa che va al di là di una dimensione umana. E allora ecco che noi ci lasciamo suggerire dalle grandi forze della natura: pensate a un vulcano che non scoppia perché tutta la sua forza è sotto il tappo di pietra che lo comprime; pensate a un incendio clamoroso di una foresta in fiamme; pensate a dei fulmini, a una tromba d’aria: tutto questo noi lo possiamo fare mimicamente, per andare a scoprire fino a che punto possiamo diventare espressivi. Dopodiché buttiamo via tutti questi gesti che sono partiti dalla mano e dal respiro: il respiro è il primo elemento vitale che ci permette la vita, e la mano è come il nostro polmone, e la mano diventa aria e poco per volta  – come diceva Franco Perrelli , che ha capito bene queste cose – dalla mano si va a tutto il corpo, e poco per volta si può diventare aria, acqua e così via fino alle grandi forze della natura, che ci offrono delle dimensioni che travalicano l’umano medio per portarci a una interpretazione di personaggi giganteschi, dai sentimenti eccelsi, tragici, grandiosi, come appunto Re Lear e tanti altri del nostro teatro.

Franco Perrelli – Orazio Costa era un uomo, devo dire, anche di grande fascino e straordinaria eleganza… E praticamente il novanta per cento degli attori italiani per alcuni decenni veniva da Costa. Anche questi, dell’ultima tornata in Accademia degli anni Novanta.

Maricla – Sì, ma è curioso, e fa pensare, che questo gruppo sia appartenuto tutto a una classe che casualmente si è formata. Quindi è proprio il lavoro che il Maestro ha fatto fare che ha sviluppato le capacità espressive di questi ragazzi, e del resto i grandi maestri riescono a ricavare quasi da qualunque essere umano l’attore e qualche volta il grande attore. Se voi pensate a Grotowski e a Richard Cislak che è stato un suo grande attore: prima di essere stato addestrato da lui, era un incapace! E è diventato quella forza espressiva de “Il principe costante” che noi conosciamo, tratto da   “La vita è sogno” di Calderón de La Barca. E tra l’altro, una delle battute chiave de “La vita è sogno”, quella di Sigismondo… Qualcuno ha letto “La vita è sogno”?

Franco Perrelli – No… loro vengono dal cinema!

Maricla – Sì ma… non vuol dire! Uno legge, anche se fa dei corsi diversi dal teatro. Per esempio, un regista di cinema come Bellocchio tira fuori alcuni suoi film da testi teatrali. Louis Malle fece uno splendido film che sicuramente avrete visto, traendolo da “Zio Vanja” di Cecov. Si chiamava “Vanja sulla quarantaduesima strada”. La prima scena comincia quasi impercettibilmente, no? Prima c’è questo personaggio – che è Astrov, il dottore, in mezzo alla folla della strada, poi  arriva in questo posto un po’ diroccato, si siede lì, a un tavolino, e comincia a parlare con una donna anziana che sta lavorando a maglia… Non sembra di essere ancora dentro alla vicenda del film, e invece la storia è già cominciata. Ed è un film che è partito da un testo teatrale… ma non dimentichiamo personaggi  come Ingmar Bergman, che ha fatto cinema e ha fatto teatro, passando tranquillamente da un genere all’altro. Quindi se voi dedicherete un po’ di tempo alla lettura di qualcuno di questi grandi autori, non farete certamente una cattiva scelta. Diceva Costa della nascita della regia moderna, che l’Italia ha scoperto per ultima perché qui c’era proprio la passione per il mattatore… i testi della regia moderna, e quindi del teatro problematico, in realtà non sono soltanto questi quattro, fondamentali per l’inizio del rinnovamento – Ibsen, Strindberg, Cecov e Pirandello – , ma sono tutti i grandi autori poeti, anche i più antichi, soltanto che spesso essi sono stati usati ad uso determinante del protagonista.

I ragazzi chiedono di provare ad applicare il metodo attraverso i primi esercizi.

Anche se lo spazio della sala in cui ci troviamo non è grande, usiamo quanto possiamo fra le sedie e i corridoi.

Maricla – Chi si vuole mettere in piedi? Forza! Cominciate a sentire la vostra mano… la vostra mano che si muove. La mano, e poi si muove anche il braccio. Sarebbe molto più comodo se vi metteste seduti a gambe incrociate… Fate voi! La mano si muove… inspirate e aprite la mano, espirate… vedete come è naturale questa cosa? Bene, continuate… continuate a respirare. Cominciate a sentire questo respiro che vi prende totalmente, ammorbidite le vostre giunture, sentitela dappertutto quest’aria. Continuate a inspirare… espirare… e poco per volta sentite quest’aria dappertutto, anche nelle gambe. Le gambe non sono più dei supporti, sono parte di questa aria. Cominciate a sentirlo… non importa che facciamo chissà quali grandi cose, l’importante è che vi sentiate più leggeri. Più leggeri… forza! Inspirate… espirate… ammorbidite anche il collo, anche la testa… è tutto leggero. Ed è così leggero che vi porta su… sentite le gambe, anche, leggere… Attenzione! se tu ti metti con le gambe incrociate sei rigido! Bene…  le gambe non ci sono più… sono aria! sentite questa leggerezza, cercate di sentirla in tutto il corpo, sempre ricordando che questa mano era già così duttile… ma adesso sono anche le spalle, il petto… il vostro bacino… tutto il vostro corpo… morbidi, e salite, salite come aria, come aria, come aria, sempre più su, sempre più rapidamente, sempre più leggermente… sentitevi una specie di vapore, di vapore che sale, che sale…  non interrompete, continuate, sempre più leggeri. Spostatevi in mezzo al corridoio… uscite dalle sedie… Sentitevi questo filo di vapore che diventa più denso… diventa nuvola, siete una nuvola… non dovete vedere una nuvola… siete voi la nuvola! Va bene, va bene… questa nuvola diventa pesante, diventa pesante e piove, piove, piove. Forza! Piovete, siete pioggia! Avanti! siete pioggia tutti insieme … tutto il vostro corpo è pioggia. Non dovete buttare la pioggia dalle vostre mani,… voi siete pioggia! Forza! Va bene, va bene… andate avanti e piovete voi! Bene, brava quella ragazza! Forza con la pioggia… che sempre più forte! Grandina! Forza con la grandine! Forza con la grandine! E poi vi rilassate e sarà il sereno…

I ragazzi gradatamente tornano alla loro condizione umana e si fermano, ansanti e piuttosto rilassati e felici, forse soprattutto sorpresi di sentirsi così.

Io visto il tentativo, se pure molto cauto… di entrare in quest’orbita dell’immedesimazione che rappresenta uno dei primi esercizi del metodo mimico. Di fronte alle massime autorità non si sa mai come si va a finire… è vero, Franco?

 Sappiate che l’esperimento di cui vi parlavo (in tutti i quartieri di Firenze) è stato anche fatto nelle scuole: nei bambini delle scuole medie gli insegnanti hanno riscontrato un miglioramento assoluto nell’uso dell’italiano; per quelli più piccoli, degli asili nido, questo metodo dopo un paio di mesi ha sciolto traumi, allentato chiusure, eccetera. Il metodo ha soprattutto contribuito a far sì che i ragazzi avessero più capacità di attenzione e quindi un arricchimento attraverso questa attenzione di vocaboli, di aggettivi, al punto addirittura da scrivere loro stessi delle poesie, e poi addirittura di essere migliori in matematica. È un’esplosione di creatività e di attenzione, a prescindere dal fatto poi massimo dell’interpretazione generale.

Dopo questa digressione relativa all’ampliamento dei referenti del metodo, torniamo all’attore e al teatro. Ora interviene il discorso dell’analogia, della metafora e del personaggio che è appunto la battuta e che quindi deve essere creato attraverso questa concentrazione sulla battuta – occorre trovare la temperie della battuta -, e poi, per iniziare ad avvicinarci a un’interpretazione del personaggio, si deve trovare il punto nel quale ci si fissa di più rispetto al contesto delle battute di un personaggio:  ovviamente il personaggio varia nel corso di un dramma: se un personaggio è sempre uguale non è un gran personaggio. Proprio  vediamo il personaggio attraverso le mutazioni (qui ci sarebbe da fare un lungo discorso sui nodi drammatici, i colpi di scena, gli incidenti). Noi dobbiamo osservare la realtà; non la possiamo rappresentare tutta, in tutti i suoi punti, e allora rappresentiamo la realtà scegliendo determinati punti in cui avvengono dei cambiamenti: questa è l’interpretazione.

Ci sono stati degli esperimenti in cui si è cercato di rappresentare totalmente la realtà (per esempio dei filmati su determinati eventi, eccetera) e poi però (a parte il fatto che già la scelta di un’inquadratura piuttosto che di un’altra è già una scelta rispetto alla realtà come tale) si è visto che era inutile tutto questo dispendio di ore e di ripresa, se poi quello che contava era andare a cercare dei punti attraverso cui creare un montaggio, e raccontare una cosa. E’ molto importante, quando si affronta un personaggio scegliere (dopo aver esaminato tutti i punti importanti del personaggio) quelli che più il regista, (d’accordo con l’attore) ritiene la sua linea d’interpretazione. Considerate che la regia è veramente la coscienza critica del lavoro: la regia non è soltanto una esternazione di bravure tecniche o una serie di trovate e così via. Deve dare una risposta rispetto al testo che va a interpretare, quindi è una coscienza critica. Ma se noi scegliamo nell’arco di un personaggio di privilegiare un certo tipo di atteggiamento del personaggio (e non un altro) noi coloreremo tutta l’opera (tutto l’arco di questo personaggio) di più in quella dimensione rispetto ad altre che avrei potuto scegliere.

Ho appena finito di scrivere un libro per la Collana che dirigo – “I Rubini”-: “Lezioni di drammaturgia” dove raccolgo le lezioni che per anni ho tenuto nella cattedra di Drammaturgia dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”: in questo caso ho scelto “La Locandiera” di Goldoni. E ci sono tre allievi che interagiscono con me dialogando  e ponendo problemi e suggerendosi ipotesi intepretative.  “La Locandiera” nessuno la conosce?

Studente con gli occhiali – Io si!

Maricla – Ah, benissimo! potrai far da tramite ai tuoi compagni. Allora, c’è questo personaggio straordinario che molte volte, purtroppo, è stato utilizzato come donnina frou-frou, carina, simpatichina, sempre in chiave di frivolezza e furberia. Esaminando via via le battute si viene a scoprire un personaggio intanto di grande spessore rispetto al solito utilizzato, ma a seconda del momento in cui la si prende ha delle sfumature che sono, per esempio, di massima volontà di vendetta nei confronti di questo cavaliere che dice di odiare le donne: lei lo vuole fare capitolare, e ce la fa; ma ci sono altri momenti in cui quasi sembra anche lei un po’ innamorata. Quindi, se tu calchi di più il piede su una o su un’altra di queste battute, il personaggio assume delle sfumature diverse. Così come anche il Cavaliere di Ripafratta, che sembra un uomo tutto d’un pezzo, che odia le donne e basta, e poi è preso in giro; invece ha un suo patetismo, una sua delicatezzase tu vai a cercare certe battute. Ecco, dico questo perché è importantissimo tenere presente (e qui siamo di nuovo nel metodo) quello che viene chiamato nodo drammatico e quelli che vengono chiamati colpi di scena e incidenti. Il nodo drammatico, o più nodi drammatici – ma di solito ce n’è uno importante – è il centro su cui ruota l’intera opera per la quale il poeta ha deciso di scrivere tutto, ma partendo da un’immagine, da un’intuizione che, questa sì, è veramente mimica. L’autore ha sentito dentro di sé un tema (che talvolta scoppia anche in un titolo) e questo tema poi ha bisogno di essere sviluppato.

Franco Perrelli – È per uno o possono essere vari?

Maricla – Possono essere anche più di uno, è ovvio. Però sono tanti, invece, i colpi di scena. Ma i colpi di scena (come probabilmente voi sapete) sono dei momenti di modificazione della situazione in cui si pensava di andare dritti avanti e invece si presenta un masso davanti a te, e tu devi deviare dalla strada prevista. Però lo superi, ma comunque questo masso ha modificato il tuo percorso (a parte che ci sono addirittura degli incidenti che sono minimi, all’apparenza, ma che poi possono portare a delle modificazioni totali: uno degli gli esempi che si fa è la fanciulla che va sposa, e deve arrivare a una determinata chiesa… è in macchina, e questa macchina fora una gomma. Si fermano e poi arriva un giovane, cambia la gomma, ringraziano, vanno via. A che serve? È servito a fare due chiacchiere in più, a vedere una persona nuova da aggiungere al clima della commedia. Ma può succedere qualcosa di diverso! Questo incidentucolo della gomma bucata porta la prossima sposa a incontrare questo giovane: i due si innamorano pazzamente e lei non va più al suo matrimonio ma fugge con questo qui. Pensate come una cosa così minimale cambia la situazione complessiva del dramma. Ma è molto importante vedere cosa accade attraverso gli incidenti, come abbiano maggiore riscontro (e non siano soltanto dei passaggi ininfluenti) se capitano dentro determinati cerimoniali. Il cerimoniale è importantissimo (abbiamo fatto gli esempi). I cerimoniali determinano i comportamenti sia nel corso della giornata che nel corso di altre fasi della vita, in varie situazioni della vita. Ora, se voi pensate, per esempio, ai cerimoniali minimi che venivano usati moltissimo nelle compagnie dell’ottocento (la visita, la visita a casa di qualcuno, eccetera) in questi cerimoniali succedevano cose enormi (ad esempio tradimenti in situazioni borghesi) che quindi fanno deflagrare il comportamento tradizionale e scoppiare in cose molto più grandiose.

Ma direi che uno degli scoppi maggiori, della distruzione di un cerimoniale (e in una situazione assolutamente incontenibile) è nell’“Oreste”. Conoscete l’“Oreste” di Euripide? Si trovano i due fratelli, lei Elettra e lui Oreste, davanti alla tomba del padre… in un cerimoniale, ciascuno privato, di deferenza alla tomba. Nel momento in cui, però, si incontrano e c’è un ricciolo che viene lasciato sulla tomba, ed è la scoperta di essere fratello e sorella, scoppia questo riconoscimento tra i due e non c’è più nessun cerimoniale! C’è la scoperta di essere fratello e sorella e di essere davanti alla tomba del padre ucciso. Per cui l’interpretazione non è più quella educata, concentrata, contenuta, ma diventa veramente lo scoppio di un vulcano, lo stravolgimento di una caduta, il rotolare di una cascata. Ma due attori, come fanno a trovare la forza di interpretare un momento così grandioso, soltanto con la forza della loro esperienza umana?  Immaginatevi voi che non può essere soltanto l’esperienza personale sollecitata dal regista che dice: “Fai un po’ più di urla!”. Invece tu dici: “Fai un vulcano che si è scoperchiato!” Tu fai il vulcano… nel senso che non è che ti metti proprio a fare  mimicamente il vulcano, ma la tua forza, la tua capacità di sconvolgerti è quella, e ti serve per il personaggio!

Franco Perrelli – Quindi il regista in qualche modo ti dà libertà?

Maricla – Certamente… E in un qualche modo suggerisce. Però è importante che anche gli attori abbiano la loro libertà di promuovere le proposte, perché invece, purtroppo, c’è stato tutto un lungo periodo in cui la regia era sovrana e anche meschina di idee. E gli attori dicevano: “Dottore… che cosa devo fare?”.

Franco Perrelli – Il tuo Strehler ne “L’opera da tre soldi” fa tutto lui, poi dirige l’orchestra e addirittura fa cantare, sulla sua voce, Mina e Modugno, che erano più bravi di lui, forse…

Maricla _ Sì ma lo faceva anche un po’ per esibirsi, sapeva che lo stavano riprendendo…. Lui era bellissimo nelle prove del “Così fan tutte” quando fa le fanciulle ed altre cose…

Professore – Sì, ma… secondo te è tutto grazie al regista, giusto?

Maricla: Abbiamo detto che lui ha fatto recitare anche persone che poi non hanno più recitato.

Franco Perrelli – Sì ho capito! Fra Costa e Strehler c’è un abisso a questo punto… a parte il fatto dell’ideologia…

Maricla – Erano molto amici…

Franco Perrelli: Erano molto amici? Stranissimo…

Maricla: Erano molto amici, e Orazio Costa era l’unico che poteva andare al Piccolo Teatro ogni anno, invitato da Grassi e Strehler a fare una regia.

Franco Perrelli – Pazzesco… Perché so che Strehler non dava molto spazio ad altri registi…

Maricla – E quando è morto Strehler, Orazio mi ha telefonato e mi ha detto: “ti leggo il telegramma che sto mandando a Giorgio” “A chi?” “A Giorgio Strehler”… che era morto. E gli ha mandato questo telegramma dicendo: “Caro Giorgio, non badare ai pettegolezzi… ” e cose così.

Franco Perrelli – … Come se fosse vivo! Stranissimo… perché erano due personalità completamente opposte…

Maricla – Eh… mica tanto! Opposte sotto certi aspetti… quelli appunto: “Non badare a certi pettegolezzi”, ma poi la profondità del testo, ad esempio, per entrambi era essenziale rispettarla e valorizzarla… Tu hai visto “Elvire ou la passion théâtrale” di Louis di Jouvet… Uno spettacolo fatto da Strehler, traendolo dalle lezioni che Jouvet aveva tenuto nella sua scuola, tutte sulla scena di Elvire che torna dal convento a incontrare l’antico amante don Giovanni per supplicarlo di pentirsi. Ecco, Strehler a sua volta ne ha ricavato una lezione di immedesimazione vera, profonda, in cui il regista induce l’attrice a raggiungere il massimo della potenza espressiva mediante graduali avvicinamenti, nel corso di sette lezioni.

Franco Perrelli – Ma Strehler ha avuto il suo teatro, i suoi attori, le sue cose… Orazio no…

Maricla – Orazio era una persona apparentemente mite. Ma era una persona ribelle, di pessimo carattere, che non dava amicizia a nessuno… tranne, secondo certi aspetti, che a tutti! Cioè… qualunque attore poteva dire: “Scusi dottore…” : dottore… mai Maestro! Non voleva! Adesso l’ultimo scagnozzo si fa chiamare Maestro,  e lui… “Io sono il dottor Costa, e basta!” a parte che noi due ci davamo del tu) ma lui era disponibile a chiunque volesse lavorare: “Maestro…”… “No! Dottore!”… “Sì, questa battuta io avrei pensato…”… “Fammi vedere, caro…”. E poi lo aiutava…

Franco Perrelli – Però, Maricla, ecco, cioè, per esempio… Strehler è il regista… Max Reinhardt, Strehler… cioè… il regista, quello che fa tutto e… Orazio non si firmava neanche regista! Si firmava coordinatore…

Maricla – In polemica con l’andazzo furbastro della regia opportunistica, delle ideuzze e della dittatura sciocca e ignorante… Dallo spettacolo delle “Tre sorelle”, nel ’78…

Franco Perrelli – Ecco… cosa vuol dire questo?

Maricla – Vuol dire che lui disprezzava quella regia facinorosa e supponente che stava via via crescendo, e che era appunto fatta di trovatine originali e non dello studio approfondito del testo, perché per Orazio (come già per Copeau, e c’è tutto un capitolo scritto da Costa su Copeau, che io ho riportato ne “Il corpo creativo”) era fondamentale l’assolutezza della parola del Poeta, cioè il testo. Bisognava penetrare nelle parole per poter interpretare, con una grandissima libertà, ancora, da parte  dell’interprete, una grande libertà, ma sempre nel rispetto del testo.

Franco Perrelli – Ecco… per Copeau la parola è proprio nuda, anche perché nuda è la scena. Cioè, nel senso che Copeau fa questa scena di carattere meravigliosa… ha queste scale…

Maricla – … riecheggia un po’ il teatro inglese, il Globe…

Franco Perrelli – Sì… elisabettiano. Poi però arriva addirittura a quello che lui chiama “il palcoscenico a pedana nuda”… Volevo chiederti… nel caso di Copeau la parola, a questo punto, diventa la sostanza, in realtà, ma nel caso di Orazio c’era anche questo disinteresse per la scenografia, oppure…

Maricla – Intanto lui aveva cominciato da da ragazzino, e con i fratelli faceva teatro. Sua sorella, Valeria Costa, in un’intervista mi raccontò:  “Io ero la sua mano”, cioè lui le diceva delle cose e lei subito sapeva come mettere la scenografia che voleva il fratello, e anche i costumi… Tullio faceva anche lui delle scenografie, fin negli ultimi anni era il suo collaboratore più stretto.

Franco Perrelli – Era un grande scenografo…

Maricla – …bravissimo… Ha lavorato anche molto in Belgio…

Franco Perrelli – … e anche in Sudamerica, mi pare!

Maricla – Sì, ci è stato da solo, senza Orazio.

Franco Perrelli – Diversissimo da Orazio…

Maricla: Un… grande amatore!

Franco Perrelli – Un tombeur de femmes…

Maricla – Un giorno, mentre passeggiavamo per Venezia… mi diceva: “Orazio mi sta rubando gli anni migliori…Io voglio andare da Ninette!”, che era la sua seconda moglie. Orazio pur amando anche Ninette, continuava a ritenere sua cognata la prima moglie di Tullio, malgari Onnis, che era una costumista di gran gusto.

Dicevamo delle scene e dei costumi: lui li riteneva talvolta un grande apporto per dare maggior risalto alla parola, però più il costume che la scena, come del resto Copeau (perché Copeau amava soprattutto i costumi). Ma una delle cose più belle che tutti hanno detto tra le tante realizzate da Cost è stato proprio questo work in progress dell’Amleto in cui questi studenti hanno lavorato  -dal mattino alla sera, compresa la domenica e salvo dieci giorni in agosto -, mentre il Maestro mi diceva: “Ma sai che sono stanchi? Ma come!?… sono giovanissimi! Io non sono stanco e loro sono stanchi?”.

Franco Perrelli – Sì… me lo ricordo a ottant’anni che lavorava per l’Università…

Maricla – Sì, a Milano alla Cattolica lui ha tenuto dei corsi in cui parlava per intere giornate…  Questo corso sull’Amleto lo ha fatto nel ’92! Era del 1911… quindi… aveva più di ottant’anni. E  non era mai stanco: “Ma ragazzi, siete già stanchi? Non è possibile!”.

Franco Perrelli – Otto, nove ore… una cosa pazzesca, e aveva più di ottant’anni!

Maricla – Però sono stati tutti fino all’ultimo a questa cosa! Io poi ho raccolto le testimonianze di Gifuni, Lo Cascio, e la Toffolatti, che erano tra gli allievi più dotati,e mi hanno tutti detto: “E’ una esperienza che sarà per tutta la vita, per tutta la vita, per tutto il teatro che faremo in seguito, per una forma di coerenza, di serietà, eccetera….”.

Franco Perrelli – Ma l’idea era di andare in scena con questo Amleto oppure era soltanto di tenerlo soltanto così…?

Maricla – Costa avrebbe voluto andare avanti con le prove ancora un anno, senonché in Accademia non ne potevano più! Perché lui aveva sempre questi ragazzi e loro non facevano più altre lezioni… niente.

Franco Perrelli – Li aveva bloccati…

Maricla – Li aveva bloccati! Però lo spettacolo che già era più che formato si è portato al Festival di Taormina tutto quanto, ed è stato apprezzato moltissimo… Questo lavoro sull’Amleto gli allievi lo hanno assimilato tutti quanti conoscendo tutti i personaggi a memoria… tutti! Anche le donne facevano Amleto, gli uomini facevano la regina… Ofelia… Ognuno durante le prove faceva tutto! Tutto singolarmente, tutto in coro, e poi anche scegliendo le battute più importanti: ciascuno sceglieva una battuta importante di un personaggio e veniva fuori… a interpretarla con il suo carattere. Queste prove, che io ho filmato e montato, le trovate nel mio sito.

Franco Perrelli – Però, Maricla, ecco… lui ci teneva molto al’idea del coro… Io mi ricordo che questa era un’altra delle cose su cui lavorava molto…

Maricla – Il coro aiuta a trovare la propria voce, ti aiuta a sentire le altre voci e ad accogliere, a ingrandire la tua possibilità espressiva, a fare lavoro di gruppo. Lui disse: “Io d’ora in avanti se dovrò fare delle cose, le farò in coro”. Era proprio uno degli elementi del suo corso, il lavoro in coro. E ancora adesso, se tu parli con delle ex giovani che facevano i cori a Siracusa con lui – in quel teatro Costa ha messo in scena moltissime tragedie -, loro ti dicono che il Maestro insegnava a sentire dentro di sé qual era la voce che serviva. Gabriele Lavia, che allora dirigeva il Festival di Taormina,  lo invitò a portarvi lo spettacolo dell’Amleto. Lo spettacolo era, in realtà, non si sapeva cosa (perché poteva essere tutto e il contrario di tutto, in quanto tutti sapevano tutte le parti, singolarmente e in coro, con anche queste variazioni che stavamo dicendo prima: si trattava di scegliere che costa mostrare al pubblico). Allora, la sera della prima (e me lo ha raccontato proprio Sandra Toffolatti, che è una bravissima uscita dal gruppo), Costa disse: “Venite qui…”, li radunò intorno a sé e poi, indicandoli uno dopo l’altro, disse: “Tu fai questo, tu fai questo, tu fai questo…” e diede a ciascuno che cosa fare tra le cinquanta cose che ognuno poteva fare. E andarono in scena così, con una tuta semplicissima, grigia… Sono finita a dire queste cose per risponderti che per Costa il costume e la scenografia erano importanti, alcune volte, quando lui doveva supplire alla mancanza di tempo, alla mancanza di preparazione degli  attori. Era importante per lui avere il tempo per preparare gli attori, farli entrare nei personaggi. Naturalmente scene e costumi accrescono un testo con la suggestione delle immagini. Una frase che mi colpì di Costa in un nostro dialogo, riguardava il modo di lavorare di Copeau, con cui si trovava in sintonia. “Tutti gli elementi (sono) importanti nello spettacolo, purché essi convergano verso la parola  come espressione di profonde radici d’anima”. Ma quando l’attore è talmente ricco di possibilità di esprimere quello che dicono le parole, si può anche rimanere soltanto sulla gestualità e sulla voce. I gesti, come abbiamo detto, sono in parte superflui quando hanno impresso alla voce la temperie richiesta dalla battuta. La danza invece è l’espressione artistica che conserva la mimica totalmente.

Franco Perrelli – Sai cosa si dissero con Grotowski quando si incontrarono a Venezia nel ’75?

Maricla – Mi pare che non si dissero niente…

Franco Perrelli – Addirittura? Perché io so so che Grotowski aveva un certo rispetto per lui…

Maricla: Ma… non se ne è parlato… Lui parlava molto bene sia di Grotowski che di Kantor.

Franco Perrelli – Sì, anche se a me una volta disse che l’atrofia della parola in Kantor per lui era una mancanza…

Maricla – Sì, lo assommava quasi a un danzatore…

Franco Perrelli – Esatto! Diceva: “Una mimica perfetta… un balletto perfetto…Ma gli manca un pezzo dell’esperienza teatrale” che è il trattamento del testo.

Maricla – Circa le prove dell’Amleto di Costa, io ho fatto tre giornate di riprese in cui avevamo deciso di inserire le cose più importanti, Costa ci teneva che ne emergesse quanto via via aveva elaborato, scoperto, approfondito rispetto ad altre rappresentazioni di questo testo-chiave del teatro moderno. Abbiamo montato tutte queste sequenze in sei ore, due delle quali sono già sul mio sito e le altre quattro le metterò in breve. Tutto quello che si è detto in quei tre giorni utilizzati come sintesi del lavoro è nel libro “Orazio Costa prova Amleto”, l’ultimo dei quattro dedicato al Maestro. Ci si trovano delle scoperte straordinarie, credo proprio attraverso la sua capacità di entrare “chimicamente” nelle parole. La scoperta della pazzia di Amleto  – “pazzia calcolata giocosamente” –  gli viene dall’aver frequentato Yorick. Yorick è il buffone di corte e non esiste come personaggio parlante.

Franco Perrelli – No, perché non esiste come scheda.

Maricla – Esiste come citazione di Amleto che dice ( cito a memoria) : “Ah…queste labbra che io ho baciato tante volte… come mi divertivo a stare a cavalluccio su di te…” eccetera, “…e adesso sei questo…” ma, tutti i giochi, le battute salaci del folle – l’unico che può dire la verità, e Yorick era in questa situazione a corte – gli hanno evidentemente introiettato questa capacità di fare il folle. Questa è una delle scoperte di Orazio, come il fatto della visita dei comici: in realtà è il teatro che mette nella trappola il re che si scopre l’assassino attraverso il meccanismo del teatro.

Franco Perrelli – Ecco, però quello che volevo capire io e che è importante… C’è una parte – e ce l’hai mostrata – che è pre-teatrale, a base antropologica, anzi… antropica sarebbe meglio dire (in cui si passa dalla ricerca del gesto e così via)… il testo viene (e qua è un po’ complesso, perché da un lato sembra arrivare prima, perché la parola è attiva, e dall’altro lato arriva dopo)… cioè… voglio capire… in mezzo, fra il dramma e questa parte pre-drammatica…

Maricla – E’ questo che in maniera molto moderna, credo venga fuori da Nino Manfredi: cioè, trasporre realtà diverse dalla pura e semplice umanità, nel personaggio attraverso la natura. A me piace vedere questo personaggio molto grandioso e allora penso a un cavallo, penso a… No! C’è una battuta che ti suggerisce questa forza, e tu ci lavori! Io voglio farvi vedere un filmato  in cui appare e parla  il personaggio del fantasma. Il fantasma è un personaggio discusso fino alla noia da parte di tutti i registi. Qualcuno addirittura dice che non esiste ed è la coscienza di Amleto che ragiona, – cosa assolutamente scema perché c’è una scena in cui il fantasma appare sugli spalti a Marcello e agli altri di guardia  e parla con loro…

Franco Perrelli – Ma è il nostro razionalismo che non vuole credere ai fantasmi, quindi…

Maricla: Capisci…? Non può essere che lo ha pensato Amleto… checché ne dicano gli altri! Ma poi ci sono state versioni del fantasma come armatura vuota tipo…  “Il cavaliere inesistente” di Calvino oppure quello seppellito fino alla testa”,  che appare in una regia di Tonino Calenda e così via…  Il fantasma c’è! Mettetela come volete ma è un personaggio di grande importanza.  Costa si è spinto, direi, molto al di la dei criteri interpretativi tradizionali, direi superando anche le avanguardie.

Franco Perrelli – Non era un naturalista… Ecco, una cosa volevo capire… Come faccio io a respingere una parte di quello che vedo, se quella parte come regista non mi convince, cioè se una parte di quei gesti… se qualcuno io non lo vedo adeguatamente concentrato, come faccio a intervenire col bisturi?

Maricla – Questo dipenderà poi dal regista. Noi qui siamo in esercitazioni espressive, e quindi io penso che questi gesti si adeguino via via e vengano ridimensionati una volta che si è trovata la linea del personaggio mediante le battute-chiave, la voce ecc…. Le prove de “Il mercante di Venezia” – uno degli ultimi spettacoli firmati da Costa, nel 1986 -, per esempio, erano fatte in tutt’altro modo, anche se c’erano delle parti portate avanti attraverso la mimica, perché poi un atto come Gianrico Tedeschi era stato suo allievo, Paola Gassman lo stesso – ricordava di aver recitato ne “Il sogno di una notte di mezza estate” come saggio – : se gli attori sono in sintonia col regista non c’è quasi mai contrasto a dire: “No! Io voglio così… perché penso così…”, c’è un adeguamento dell’attore nei confronti dello stile complessivo e del regista che dà libertà all’attore di fornire delle  ricche possibilità di interpretazione.

Franco Perrelli – Io ho visto che Costa aveva una grande predilezione per i classici, a parte che ha fatto anche molti moderni…

Maricla – Molti attualissimi! Ha fatto addirittura  Vasile, Diego Fabbri, mario Pomilio, Gennaro Pistilli… e fra i più recenti mario Luzi, per “Ipazia” e “Rosales”…

Franco Perrelli –  E ha fatto anche cose che non erano teatrali. CIo so che lui ha lavorato moltissimo su Dante, interpretato in termini teatrali, e sulle Laudes…

Maricla – Il “Mistero”  – una serie di laudi nel tredicesimo e quattordicesimo secolo, al centro delle quali era il “Il pianto della Madonna” di Jacopone da Todi –è  stato uno degli spettacoli più belli che lui ha fatto, e lo ha ripreso negli anni in varie versioni: nel ’39, nel ’65… sempre di più, nella sua capacità di osservazione e di immedesimazione nel mondo, con il desiderio di far interagire anche il pubblico, per cui, una sua idea di farlo a San Miniato. Aveva pensato di farne una versione dentro il Duomo di San Miniato in cui c’erano tutte le persone del paese che durante l’ultima guerra sfuggivano ai bombardamenti; stavano in chiesa e sentivano intorno i tedeschi che sparavano, e li, poco per volta, nasceva questa sacra rappresentazione, quasi come una preghiera. Costa aveva delle grandi intuizioni. Lui, per esempio, voleva fare al Colosseo “La Divina Commedia”, e lo hanno preso per pazzo. Adesso l’ultimo scagnozzo del Comune tira fuori queste idee… capisci? E magari gliele accettano subito.

Io per tornare al motivo centrale del nostro incontro,  devo dire che per conto mio ho applicato il metodo mimico anche in Accademia con gli allievi attori e poi con gli allievi registi. In questo mio ultimo libro – “Lezioni di drammaturgia – La locandiera di Goldoni” -, Franco, tu vedrai che io chiedo agli allievi registi di mostrarmi un’immagine complessiva de “La Locandiera” e ognuno la fa in maniera diversa, essenziale rispetto all’idea che si è fatto dell’intero testo; poi da lì si parte per un discorso progressivamente molto più dettagliato… Con altri sviluppi, adeguato al corso di Scienza della Formazione, applico il metodo a Viterbo…

Franco Perrelli – Ma nella tua esperienza di regista…nella tua individualità di regista, rispetto alla versione di Costa, tu ti ritieni un’allieva o ritieni di aver portato delle variazioni al metodo?

Maricla – Delle variazioni sì perché via via si scoprono gradualmente delle cose nuove.  Per esempio, la scoperta dei neuroni a specchio, delle cellule che imitano le cellule che hanno davanti sono tutte cose che si avvicinano molto al discorso dell’immedesimazione e ci sono degli studi approfonditi  in merito. Però io come regista ho fatto i primi anni nella regia, e poi l’ho fatta per alcuni filmati – “Marisa della Magliana” definito il primo telefilm femminista, è stato mandato in onda innumerevoli volte, anche a distanza di decenni. Però, secondo me, il metodo a me è servito per scrivere, perché io poi ho scritto soprattutto testi teatrali. Il metodo è scatenante della creatività di ciascuno di noi non solo rispetto al teatro, ma rispetto anche alla pittura, alla musica, a tutte le altre arti. Io, per esempio, in questi corsi che faccio all’interno di Scienze della Formazione di Viterbo, faccio anche fare pitture, – Orazio faceva già queste cose nei suoi vari corsi – nel senso che ognuno ha un foglio bianco, intinge le mani nei colori che vuole e traccia sul foglio l’impressione dell’oggetto o del tema  che io ho suggerito per tutti  -“Fate un albero” – oppure un sentimento, e poi tutti i ragazzi vanno davanti al foglio di ciascuno a turno e suggeriscono che cosa secondo loro ha voluto dire il compagno. Ma l’albero non è “Fate l’albero” – che sarebbe una idiozia- : è “Fate dell’albero… ciò che l’albero vi suggerisce, il colore, la leggerezza, la durezza,  date un’immagine, un segno” – Costa chiarisce molto bene le differenze tra disegno e segno -, un segno che sia la prosecuzione di un qualcosa che hai sentito dentro. E allora dell’albero voi darete la forza, la leggerezza, il ritmo delle foglie, il verde o quello che è. Quello ci interessa! C’è ancora qualcuno in giro che dice: “Mi faceva fare l’albero e io facevo l’albero” facendo con le braccia una forma approssimativa di un albero…. Cretino! Orazio non ha mai voluto che facessero l’albero, o il cielo… capisci? Quello che interessa sono i ritmi che in natura recuperiamo e che vengono a noi dalla natura e da noi vanno alla natura, perché se voi immaginate un volto radioso, noi prendiamo l’immagine dal sole e l’applichiamo a una persona, e se noi diciamo un salice piangente noi prendiamo un’immagine umana del pianto portandolo a un essere vegetale, e così via.

Franco Perrelli – Il metodo è originale o ha maestri, a sua volta, nelle origini?

Maricla: Ci sono tante ipotesi in merito. Intanto Copeau, che ha voluto questa concentrazione sulla parola, poi Orazio le ha dato più vita attraverso la pratica, e cioè questa cosina che qualcuno di voi ha cominciato veramente a fare ma che è questa sensazione di essere qualcos’altro. Quindi, ci sono vari giovani e non più tanto giovani che continuano il metodo in giro. Per esempio… quel grande danzatore belga… Béjart… aveva applicato il metodo nella sua compagnia di danza.

Franco Perrelli – Cioè, anche sulle posizioni della danza… il metodo può aprire orizzonti di creatività e per queste cose possono… e anche di più, forse…

Maricla – …e anche con la musica. Io qui ho un tema bellissimo che avevo portato da leggervi. L’allieva del corso di scienza di Formazione ha applicato il metodo in una prova per un concerto – suona il flauto – e mi scrive che ha ottenuto risultati mai prima raggiunti.

Franco Perrelli Perrelli – Allora… abbiamo visto la lezione italiana di Orazio Costa. Ringraziamo Maricla Boggio per aver concluso anche i corsi di quest’anno e speriamo, se le disponibilità economiche ce lo consentono, di farla tornare magari l’anno prossimo…

Maricla: Grazie a voi!

FRANCO PERRELLI e MARICLA BOGGIO copia