di Euripide
adattamento e regia Gabriele Lavia
con
Federica Di Martino
Simone Toni
produzione Effimera srl
Roma, Teatro Vascello, 6 ottobre 2020
Maricla Boggio
“Perché hai ucciso i figli?” chiede Giasone a Medea.
“Per farti soffrire”, lei risponde.
Su queste battute si chiude lo spettacolo che Gabriele Lavia ha ideato traendolo dalla Medea di Euripide. Una sottolineatura significativa che indica una scelta che partendo dall’inizio percorre l’intera tragedia. La sofferenza inflitta da ciascuno dei due dialoganti all’altro, in un contesto che pare sospeso nel tempo girando sul tema. E si parte dal secondo episodio, a schiaffo, con Giasone in scena a rinfacciare a Medea il suo comportamento nei confronti del re, mentre è Medea a rinfacciare a Giasone di averla ripudiata e di aver accettato che venga scacciata con i figli. Ed è tutto un dialogo fra i due a sviluppare fedelmente l’intero dramma che non elimina gli argomenti della stesura classica, sostenuti dal Coro, d Egeo, da Creonte, dalla Nutrice, dal Nunzio, ma tutti riconduce alla narrazione che i due ne fanno, sia rivivendo momenti del passato, sia riportandoli come una visione sonnambulica.
Risaltano in questo contesto asciugato e scarno, temi che rimangono gli stessi dall’antico all’oggi, smussati nel tempo attuale da una certa cultura che li affina, li giustifica, li giudica secondo parametri psicoanalitici. Ma la gelosia, la rivalità femminile, l’amore per i figli ma anche la loro strumentalizzazione nei confronti del partner fino a usarli come oggetti d’amore personale arrivando ad ucciderli, sono elementi che si possono definire moderni, ma che più che moderni sono eterni della natura umana, basta scorrere le cronache di questi giorni per averne verifica.
Il tipo di recitazione suggerito da Lavia, che ha lavorato sulla drammaturgia con lo scopo di indurre gli attori a una sua scelta, è scevra da effetti esteriori, e si sviluppa fra due tonalità di fondo. Il racconto contenuto e piano di Medea si scontra con la recitazione provocatoria, nevrotica di Giasone che insiste a indurre la compagna ripudiata a cambiare atteggiamento nei confronti del re e della sua nuova sposa. Federica Di Martino esprime una gamma di delicate variazioni sul tema del dolore, del risentimento, dell’infedeltà e dell’amore verso i figli, senza mai indulgere a realistiche intonazioni, tranne poi quando è sola, e si scatena nell’istinto della vendetta non dovendo fingere i suoi sentimenti. Simone Toni dà spessore iperrealistico al suo modo di affrontare Medea, adottando forme espressive suggerite da Lavia in quegli scatti di movimenti che poi si sciolgono in piccoli dettagli, fino a percorrere la complessa sequenza della narrazione che riporta la morte della giovane sposa e di suo padre Creonte, una sorta di sogno ipnotico che si giustappone al personaggio di Giasone.
Scartata anche la presenza dei figli – una rarità del testo euripideo – che devono recare i doni alla sposa, la Medea di Lavia si fa autrice di magie mortali che hanno a che vedere con una sessualità avvelenante: con formule misteriose percorre la lunghezza della striscia di seta ricamata imprimendole la sua maledizione attraverso il contatto con il suo sesso, e ugualmente fa ponendosi la corona fra le gambe. E tutto quanto offrirà a Giasone in un cofanetto da recare all’ignara ragazza.
È poi, nell’attesa del risultato, tutto un dilatarsi sul pavimento di una seta sanguigna che invade lo spazio, a cui si aggiunge l’esposizione di due drappi che Medea tiene fra le mani, simbolo, questo sì più significativo, dei figli uccisi.
Lo spettacolo ha una sua essenzialità che inizia dalla scenografia e dalle luci, piantane fisse su rossi pali che poggiano su di un terreno che sa di sabbia o di grano, quasi la stanza che si addice a una Medea che arriva da una patria barbara. E ancora i panni colorati sul letto, di gusto africano, l’immagine ricorda certe rappresentazioni recenti di Peter Brook.